Ruggisce Luanda, la capitale dell’Angola, mentre in Laguna l’acqua sale, le nuvole incombono, ma sprazzi di sole allietano l’attesa dei visitatori in fila ai Giardini per l’inaugurazione ufficiale della 55/ma edizione della Biennale d’Arte di Venezia.

Il padiglione. È l’artista Edson Chagas, chiamato a rappresentare per la prima volta il suo paese presso la sede di Palazzo Cini (san Vio), a portare a casa il Leone d’oro: l’Angola, con la sua mostra a cura di Paula Nascimento e Stefano Rabolli Pansera, è la migliore. Come esordio nazionale non c’è male. Qui, il pubblico era invitato a prelevare dei manifesti fotografici che riportavano pezzi di «mondo», oggetti abbandonati – vecchie poltrone, finestre, sedie, cassette – agli angoli delle strade e a costruire così una personale Encyclopedic City. Chagas, classe 1977, studi di fotogiornalismo alle spalle, riprende il filo della riflessione della Mostra internazionale, quella classificazione impossibile del sapere umano costellato di premonizioni e disperate cosmologie, e la coniuga a modo suo, abbattendo lo spazio chiuso del «Palazzo» voluto da Massimiliano Gioni e trasferendo il set all’aria aperta, in uno scenario che comprende abitazioni, discariche, giardini, infrastrutture. Il suo è un reportage interattivo, un archivio di immagini che permette una seconda vita a «scorie» urbane, oggetti desueti, ormai inutilizzati che infondono al paesaggio antropizzato, tristemente quotidiano, un’impronta visionaria. Piace l’Angola vincente, ma dispiace per il Cile di Alfredo Jaar e per la sua interpretazione magnifica del retrogusto amaro rilevato in Biennale, fra le sue architetture così poco «global» e ancora molto coloniali.

La menzione speciale è andata al padiglione congiunto della Lituania e di Cipro (l’isola che ha fatto tremare le banche d’Europa) e al Giappone, per aver stimolato una riflessione collettiva del dopo-catastrofe.
L’artista. L’anglo-tedesco di origini indiane Tino Sehgal, nato nel 1976 a Londra, già in Biennale per la Germania nel 2005, vince il suo Leone e si attesta come il migliore nella Città dei Dogi. Pupillo di Gioni, che con la Fondazione Trussardi lo aveva portato a Milano, conquista un premio grazie alla sua dimensione performativa e alla repulsione per qualsiasi tassidermia dell’azione (niente testimonianze a posteriori, quindi il fallimento della memoria e della Storia stessa). Alcune persone danzano al rallentatore e generano musica con la voce. Lo spazio circostante viene inghiottito da quel loro sonnambulismo indifferente. Leone d’argento alla parigina Camille Henrot, 34 anni, lanciata nel tentativo di cogliere i codici dell’esistenza umana e i misteri dell’universo. Menzioni, per Roberto Cuoghi con Belinda, mega ectoplasma, totem primitivo realizzato però con una stampante in 3D e polvere di pietra, e per Sharon Hayes (Usa, 1970) con la sua indagine sulla sessualità delle studentesse del Massachuttes, ispirata ai Comizi d’amore di Pasolini.

I protagonisti. Certo, sono le bollicine dello champagne nei numerosissimi cocktail e gli yacht blu notte o bianco latte dei vip del cinema e della finanza ormeggiati lungo i Giardini e a Punta della Dogana (e pensare che i veneziani si sono indignati per la scultura di Charles Ray, ora rimossa per scadenza del contratto). Ma ci sono anche altre star da non sottovalutare: per esempio, Marc Quinn alla Fondazione Cini, sull’isola di san Giorgio viene introdotto alle frotte di turisti che si spintonano sui vaporetti dall’enorme statua dell’atleta disabile Alison Lapper, incinta. Anche qui, polemiche per l’«inquinamento paesaggistico». Se è per questo, all’aperto, vengono esibiti grandi feti e orribili conchiglione. Intrusioni in scala monumentale in dialogo con vita e morte, dubbi amletici e risonanze apocalittiche.

Germano Celant, che cura la sua imponente personale è un altro protagonista «pesante» in Laguna. Lo ritroviamo alla Fondazione Vedova alle prese con le maschere da Carnevale del maestro dell’Informale e con una strepitosa sequenza di sculture di Roy Lichtenstein (45 opere tra disegni, collage, bozzetti, modelli e sculture in bronzo realizzate tra il 1965 e il 1997). Non basta. È sempre lui a tirare le fila della bellissima mostra alla Fondazione Prada che rende un tributo alla figura di Harald Szeemann e alle sue intuizioni artistiche. When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013, riallestita com’era (con qualche assenza) alla Kunsthalle di Berna nel 1969, ricostruisce anche il pavimento vintage di allora e cerca di ritrovare l’atmosfera di quelle sale poveriste e concettuali. Altro guest apprezzatissimo, Anthony Caro: lo scultore inglese è al Correr con i suoi assemblaggi astratti di grande impatto. Non sfigurano rispetto ai più contemporanei neanche Munch (Bevilacqua La Masa) e Manet (Palazzo Ducale): la sua retrospettiva con pezzi scelti è da sindrome di Stendhal. Impazza pure Ai Wei Wei, diviso in tre mostre (ha mandato la madre a rappresentarlo, visto che a lui hanno ritirato il passaporto) e apparizioni «carcerarie».

Il percorso doc. Una volta massaggiati i piedi dopo la scarpinata tra Arsenale e Giardini, fermata d’obbligo in Thailandia, vicino alla ferrovia e fuori porta, a Forte Marghera per conoscere la realtà di Tuvalu, lillipuziana isola del Pacifico che in Laguna attacca il dominio del petrolio. Rientrati, si può scendere dal vaporetto alle Zattere per vedere la mostra Rhizoma, network di artisti provenienti dall’Arabia Saudita. Focus qui su Heba Abed per Lost in tranliteration, sorta di abecedario per giovani arabi che chattano nel web. Infine, Priscilla Monge (Costa Rica). Eravamo curiosi di trovarla in Biennale e le aspettative non sono state deluse: su banchi di scuola istoriati con frasi-epitaffio scorre l’educazione alla vita e alla sua brutalità. Morte compresa.