Entriamo in un altro inferno creato da Loznitsa, “Krotraya” (Una donna dolce) E’ un inferno senza ritorno in un aRussia imputridita e colma di residui del passato, fiaba dalle illustrazioni raccapriccianti, riepilogo di caratteri intrecciati in un susseguirsi di quadri impietosi.

Nel silenzio e nel vuoto della campagna una donna si vede recapitare il pacco che ha inviato al marito in prigione e inizia un lungo viaggio per scoprire che fine abbia fatto il marito, dove sia stato trasferito. Dal silenzio della campagna si trova immersa in un incubo di folla loquace, negli autobus strapieni dove si intrecciano dialoghi carichi di violenza repressa, nel treno dove si possono ascoltare raccapriccianti storie di guerra, si innalzano cori di epoca sovietica, nella prigione del lontano villaggio dove ci si scontra con la burocrazia penitenziaria e i loschi affaristi che sfruttano le pene dei parenti dei reclusi.

La paziente attesa silenziosa della protagonista, fiduciosa di ogni promessa, esalta sempre di più il mondo di dannati che la circonda, un inferno composto da una serie ininterrotta di gironi dove trovano posto poliziotti, impiegati statali, loschi faccendieri, boss mafiosi e puttane, vecchie streghe,ubriaconi.

Là dove scorre la vodka in una ininterrotta magnifica colonna sonora di canti popolari e teoria di atroci figure.

Loznitsa scrive la sua Commedia di un solo capitolo possibile, senza giudizio divino e senza possibilità di riscatto, senza via d’uscita, universale perché specchio di un’umanità che assume forme diverse a seconda dei momenti storici e dei diversi paesi, anche se qui ne inchioda precisamente uno in particolare, in una serie di momenti storici che sembrano esplodere in una particolare epoca (ne abbiamo avuto un esempio nel nostro cinema del post neorealismo dove però figurine, musica e slang erano assemblate con bonomia). Qui la lezione del cinema ci porta a un luogo senza speranza dove la vittima è quella donna senza più reazioni che potrebbe rappresentare la Russia sopraffatta, stuprata.

Un film che pesca nel profondo, nel passato di tutta la storia, la letteratura, la tradizione ed esplode nel presente.

In un’ultima scena la tensione si spezza, quasi tutto il pubblico occidentale reagisce male a queste impennate slave così fuori dai ranghi della tradizione. Eppure chi ama il lavoro di Loznitsa dovrebbe sapere che il suo stile procede con una ritmica particolare, a sottolineare di continuo qualcosa perché entri bene in testa al pubblico contemporaneo tanto distratto. Non esisterebbe “Austerlitz” senza la ripetizione del concetto. Si tratta della scena onirica di un banchetto di notabili a cui partecipano tutti i protagonisti del film, anche una sorta di presentazione ben evidenziata di ogni funzione pubblica. Ognuno di loro è presentato, ognuno risponde facendo prova di fedeltà al potere per quanto abbia cercato di trasgredire o di aggirarlo. Tutti sono in modo uguale responsabili della situazione. In più la scena del banchetto (e degli invitati) è una delle costanti più famose nella vita pubblica dei paesi del blocco sovietico, prese di mira da certi film della “nova ola” cecoslovacca, ad esempio da Jan Nemec a Vera Chitylova: si ha il tempo durante tutta la lunga sequenza di rammentare i riferimenti più disparati. Da Dostojevskij alla storia, alla cronaca.

Lo stesso Loznitsa dice a proposito: «Sono stato costretto a rendere questa scena più breve di come avrei voluto, ho lottato duramente e dura esattamente quello che occorre per dire quello che volevo dire»

Come se il documentario entrasse di prepotenza nella fiction?

«Questo film non è totalmente finzione. Direi diversamente: i miei documentari sono film di finzione. Se nel film riconoscete situazioni che avete vissuto si può dire che ha a che fare con il documentario. Si parla di storie che ho sentito una volta nel 1984 in un autobus  come la mano sezionata di una sposa ritrovata dal marito. Sono situazioni che si uniscono le une alle altre come in un millefoglie».

Non si tratta di un attacco preciso né alla Russia né a Putin, dice: «Penso non ci sia qualcosa di preciso in questo film. Ognuno di noi è responsabile di quello che succede. Proprio per questo nel film c’è la scena del banchetto che rappresenta le cene dove si ritrovano i notabili, dove si parla a lungo e non si decide nulla. Nessuno è responsabile ma condivide la responsabilità».

In una situazione tanto claustrofobica che non prevede vie d’uscita è come se il paese sia una grande prigione che comprende tutto un popolo: «Un tipico ragionamento degli intellettuali russi da più di un secolo è la discussione che riguarda il popolo: lo si ama ma non lo si capisce. Si può risalire al movimento decabrista, la marcia verso il popolo del 19° secolo. È una tradizione per noi.

Non bisogna limitare questo quadro a un paese, bisogna allargarlo a un panorama più universale. Nei paesi dove si attenta all’essere umano si deve reagire, i diversi paesi sono diversi per il fatto di avere più o meno libertà. È vero che il film si svolge in Russia, ma è la Russia sovietica, di Rimsky Korsakov, della cultura tradizionale, della musica, della letteratura. E senza quella musica n»on avrei potuto fare il film».