Verso il 1913 Marcel Duchamp, all’epoca un giovane e promettente pittore, colloca una ruota di bicicletta su uno sgabello, limitandosi ad osservarla mentre gira. È in quell’anno che l’artista francese smette di dipingere e comincia ad interessarsi a questi manufatti che trovano posto nel suo atelier, per lo più al riparo dagli occhi del pubblico. I readymades corrispondono alla decisione di abbandonare la pittura per ripensare l’attività artistica a partire da quella «non-attività», dettata da indifferenza e non da una vera e propria scelta, che consiste nel procurarsi una serie di oggetti che, in fondo, non sono altro che merci.
L’ultimo scritto di Maurizio Lazzarato, un breve ma denso saggio su Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro (edizioni Temporale, pp. 64, euro 6,80, traduzione di Duccio Scotini), commissionato dall’editore Semiotexte in occasione della Biennale del Whitney Museum di New York, ha il merito di introdurre una prospettiva nuova nella sterminata letteratura sull’artista. Il rifiuto del lavoro permette, infatti, di fare emergere il significato «politico-esistenziale» della riflessione duchampiana, attraverso l’analisi della sua posizione nei confronti dell’arte in quanto attività produttiva e dei processi di disidentificazione che attraversano le sue diverse «strategie di sé».
Lazzarato precisa sin da subito che il rifiuto del lavoro duchampiano è altra cosa rispetto alla categoria politica dell’operaismo italiano: si tratta infatti di una strategia individuale, che precede la stagione delle lotte degli anni sessanta e che difficilmente può tradursi in azione collettiva in quanto evita accuratamente il conflitto.
Tuttavia, il rifiuto del lavoro duchampiano può fornire fecondi elementi di riflessione riguardo alle possibili strategie da adottare per sottrarsi al dominio socio-economico e aprire «nuove dimensioni dell’esistenza e forme di vita».
Marcel Duchamp è a tutti gli effetti una figura delle disidentificazione, nel senso che ha rifiutato i ruoli, le funzioni, le identità e le categorie che incasellano la soggettività e l’attività umana per renderla produttiva e metterla al lavoro. Per tutta la vita, ha vissuto in accordo con i mezzi di cui disponeva di volta in volta, rifiutando di impiegare il proprio tempo a produrre oggetti da immettere nel mercato, tentando così di mantenersi in una posizione liminale rispetto al mondo dell’arte, né dentro né fuori.
Duchamp, infatti, era del tutto disinteressato ad avallare nozioni come «arte», «artista» o «creatività»: «La parola ‘creazione’ – afferma Duchamp – mi fa paura. Nel senso sociale, normale, del termine, la creazione è qualcosa di molto seducente, ma in definitiva io non credo alla funzione creatrice dell’artista. È un uomo come tutti gli altri, che fa certe cose, ma anche il businessman, ad esempio, fa certe cose».
Lazzarato ricorre in particolare all’idea di «azione oziosa» per rendere conto dell’operazione di Duchamp e del suo significato politico. Il rifiuto del lavoro duchampiano affonda le sue radici nel XIX secolo, in particolare nella lettura del libro di Paul Lafargue che rivendicava il «diritto all’ozio» come forma di vita. L’azione oziosa è una sospensione dell’attività e del comando che presuppone «una riconversione della soggettività, un lavoro sul sé, dal momento che l’ozio è un altro modo di abitare il tempo e il mondo».
L’azione oziosa rimanda alla possibilità di trasformare il lavoro artistico in qualcosa che non richiede né tecniche né virtuosismi e che non rientra nell’attività produttiva: Duchamp preferiva infatti definirsi «anartista» invece di artista, o meglio ancora, «respiratore», affermando così che la sua attività consisteva, semplicemente, nel vivere.
In questa riconfigurazione del tempo e dell’esperienza, il rifiuto, l’ozio e la disidentificazione emergono come le strategie necessarie per fare un passo indietro nei confronti dei meccanismi che finiranno immancabilmente con il recuperare l’impresa duchampiana, seppur con delle ambivalenze. I significati dei tre termini sembrano spesso sovrapporsi nell’analisi di Lazzarato, in particolare per quanto riguarda il rifiuto del lavoro e l’azione oziosa, che si configurano come due aspetti dello stesso problema, ponendo la questione della differenza tra il fare un passo indietro e l’affermare una posizione potenzialmente antagonista.
L’ozio e il rifiuto sono la stessa cosa? Se prendiamo in considerazione le posizioni di altri artisti – in questo caso artiste – come Lee Lozano, Charlotte Posenenske o Cady Noland che si sono «chiamate fuori», rifiutando sia il lavoro artistico che il mondo dell’arte, questa stessa questione si pone in modi del tutto diversi, nei termini di una interruzione (permanente) dell’attività produttiva. Duchamp invece ha coltivato l’ambivalenza, tentando di tenersi in bilico tra la passività (l’indifferenza) e un processo di ricostruzione di sé a partire dal rifiuto del lavoro artistico, contribuendo così a stravolgere i paradigmi che definiscono l’arte e l’artista.
Tuttavia, la parte meno convincente del saggio di Lazzarato è quella conclusiva, in cui l’autore tratteggia un quadro eccessivamente riduttivo dell’arte degli ultimi decenni, rappresentata come un insieme omogeneo in cui non si dà «nessuno scarto nei confronti di un potere che, al contrario, si contribuisce a rappresentare come assoluto». Andy Warhol è indicato come la figura emblematica del processo di asservimento dell’arte alle logiche del capitale.
Eppure la Factory, cui allude Lazzarato, era anche una fabbrica paradossale, in cui la produzione aveva un carattere artigianale, e dove si sperimentavano forme di vita e di sessualità in contrasto con la standardizzazione della produzione industriale. Prendere in considerazione ciò che chiamiamo «arte» non come una totalità omogenea, ma come un insieme di posizioni e di pratiche eterogenee e spesso dissonanti, potrebbe rivelarsi un metodo più fecondo per valutarne tanto la complessità quanto le potenzialità nell’operare uno scarto tra assoggettamento e soggettivazione. In fondo, il saggio di Lazzarato dimostra come la lezione duchampiana risieda proprio nell’apertura di questo possibile, dentro e fuori dall’arte.