A cosa ci serve lo studio dell’antichità classica? Da un pezzo la domanda è diventata puramente retorica. Figuriamoci, poi, nel tempo delle rottamazioni e del «fare» sans phrase. Da decenni, di riforma in riforma, gli strateghi ministeriali hanno inseguito la fata morgana di un sistema formativo funzionale al mercato del lavoro. Mercato di cui tutto ignoravano e del quale non hanno indovinato, neanche lontanamente, la benché minima tendenza e, men che meno, la progressiva scomparsa. In compenso sono riusciti a trasformare il corso degli studi in un iter burocratizzato e molesto. La modulistica universitaria e la selva degli adempimenti sono diventate ben più complesse della scrittura cuneiforme ed occupano buona parte del tempo e delle energie dei docenti.
Ma per tornare alla parola d’ordine che ha accompagnato tutte le tappe di questo disastro («adeguiamoci al mercato del lavoro!») è chiaro che gli studi classici ne hanno fatto le maggiori spese, anche se non sono stati certo i soli. All’«utilità o il danno dello studio dell’antichità classica per la vita» Luciano Canfora ha recentemente dedicato un breve scritto polemico, genere in cui è maestro, intitolato Gli antichi ci riguardano (Il Mulino, pp. 104, euro 10), nel quale passa in rassegna, più che l’ostilità dominante, la debolezza degli argomenti messi in campo nel difendere dai suoi detrattori «riformisti» lo studio dell’antichità classica. Quest’ultimo rappresenta certamente un caso specifico, ma rinvia anche a un tema molto più generale.
Tra gli argomenti presi criticamente in esame da Canfora vi è quello dell’«utilità dell’inutile» che l’autore considera un sofisma destinato a rovesciarsi nel suo contrario e magari perfino a insinuarsi attraverso qualche improbabile pertugio nell’agognato mercato del lavoro. Ma forse la questione dell’«inutile» andrebbe affrontata in un altro modo, con un occhio alla storia e un altro alla gerarchia dei saperi (e dei poteri). Allo scopo possiamo fare ricorso a due autori, un esponente dell’Illuminismo e uno dei suoi più acuti critici. «Non vi è scienza – scrive Condorcet nella Quinta memoria sull’Istruzione pubblica ( 1791) – che, per la natura stessa delle cose, non sia condannata a intervalli di ristagno e di oblio. Se intanto allora la si trascura (…) bisognerà ripercorrere una seconda volta la via abbandonata, quando nuovi bisogni o nuove scoperte obbligheranno gli spiriti a tornarvi sopra. Ma, al contrario, se le società dei dotti conservano lo studio di queste scienze, allora nelle epoche fissate dalla natura al loro rinnovamento, si vedranno riapparire con nuovo splendore». Qui «il ristagno e l’oblio» significano soprattutto quel salutare attrito con il proprio tempo che restituisce l’«utile», sottraendolo all’eterno presente della «fine della storia», alla contingenza che gli è propria. Quante mode culturali e saperi che avrebbero dovuto rappresentare e permeare il futuro sono tramontati in una girandola di «master» nel giro di pochi anni?
Dalla miniera inesauribile dei Minima moralia di Adorno traiamo invece la seguente osservazione: «Ai fatali transfert dal campo della pianificazione economica al campo della teoria (…) appartiene la fede nell’amministrabilità del lavoro intellettuale, in base a criteri che determinano ciò di cui è necessario o ragionevole occuparsi. Si stabilisce un ordine di conoscenze più o meno urgenti. Ma privare il pensiero del suo momento d’involontarietà significa abolire proprio la sua necessità». In questo caso l’attrito si produce con il sistema di potere che stabilisce la gerarchia dell’’utile’ e ne ’amministra’ l’elaborazione, ma anche con l’ortodossia della disciplina e le sue regole di scuola: ’la schematizzazione in importante e secondario ripete formalmente la gerarchia di valori della prassi dominante anche quando ne contraddice il contenuto’».
Certo, la venerazione del mondo antico è stata un tempo dalla parte del «necessario», del «principale», fungendo proprio da serbatoio di quei «valori della prassi dominante» a cui Adorno si riferisce, da principio d’ordine e abitudine alla disciplina. Una grande mistificazione, spiega Canfora, dedita a fabbricare quel «canone» del mondo antico che lo sottraeva alle furiose contraddizioni, ai conflitti , alle biforcazioni e alle alternative che lo avevano attraversato per consegnarlo all’ideologia nazionale.
È, al contrario, proprio da questi conflitti radicali, da questi problemi insoluti, che deriverebbe, secondo l’autore, l’insegnamento più importante dell’antichità, dall’essere stata cioè un grandioso laboratorio nel quale furono sperimentati, senza risparmiarsi, tutti i fondamentali della politica, poste tutte le domande che restano ancora aperte. È, insomma, un approccio machiavelliano, quello che ci viene suggerito. Una lettura storica della politica e una lettura politica della storia. Una scienza delle passioni umane nel loro reciproco agire. Non proprio ciò che più aggrada alla stucchevole retorica del «nuovo che avanza» concitato, senza provenire da nessuna parte.
Ma nel rapporto di Machiavelli con l’antichità classica vi è anche un altro elemento niente affatto secondario: quello del piacere, della fascinazione, della curiosità, dell’otium. È una ragione più che sufficiente per avventurarsi tra gli autori classici. Del resto nemmeno il più arido degli utilitaristi, tutt’altro che inclini al puritanesimo e all’ascesi, si sarebbe mai sognato di bandire il piacere dalla dimensione dell’utile.
I «riformisti», invece, non trovano difficoltà nel farlo, nel ritenerlo una manifestazione del colpevole desiderio di «vivere al di sopra dei propri mezzi». Poiché non è che il calcolo costi\benefici a tracciare i confini dell’utile che essi intendono imporre. Le riforme dell’Università che si sono susseguite negli anni hanno coerentemente lavorato a demolire con tenace determinazione, il piacere dello studio. Tanto che l’argomento del piacere non figura nemmeno più tra quelli messi in campo dai difensori degli studi umanistici. È forse il segno di una generale rassegnazione all’«intervallo di ristagno e di oblio»?
Ma torniamo alla politica, quella che stabilisce la scala delle priorità, tenendo bene a mente l’insidia che in essa si cela e che Adorno così descrive: «la divisione del mondo in cose principali e accessorie, che ha sempre contribuito a neutralizzare, come semplici eccezioni, i fenomeni chiave dell’estrema ingiustizia sociale, va perseguita fino al punto in cui viene convinta della propria falsità». Magari con l’aiuto degli antichi che, come scrive Canfora «non hanno scelto la via consolatoria» e continuano così a fornire un antidoto contro l’autoassoluzione dello stato di cose presente.