Due romanzi, una manciata di racconti e qualche poesia: il bilancio di quanto Malcolm Lowry riuscì a pubblicare in vita. Se lo si ricorda è per quell’unico libro, Sotto il vulcano, dove un ex console britannico «sempre accompagnato da una schiera protettrice di demoni che gli digrignavano i denti nelle orecchie» trovava la sua distruzione alcolica in una piccola città messicana sovrastata da due vulcani. Complici gli anni in cui Lowry lo concepì e il giorno in cui lo ambientò – il giorno dei morti del 1938 – in quel romanzo si riflettono tanto l’esistenza tormentata del suo autore quanto la cupa temerarietà di un mondo che procedeva barcollando ma indefesso verso la tragedia.

Se è ovviamente impossibile comprendere il Novecento prescindendo dalla follia del secondo conflitto mondiale, è quasi altrettanto vero che la lingua fluviale e incontenuta e l’accidentato percorso con cui è giunto alle stampe fanno di Sotto il vulcano l’opera particolarmente emblematica di un secolo vitale e però sempre sul limitare della dissoluzione, sempre pronto a torcersi su se stesso fin quasi a strozzarsi, a costruire labirinti in cui perdersi e flirtare con la propria bestia. Del resto, quando si trattava di definire in due parole la vita, e dunque anche lo scrivere, Lowry ripeteva immancabilmente che è «una foresta di simboli». Aveva rubato quell’immagine a Baudelaire, ma alludeva a un’altra, a lui ancora più cara: la selva oscura dell’inferno dantesco, che pensava di rivisitare proprio scrivendo Sotto il vulcano.

La discesa agli inferi
A dirla tutta, il piano era ancor più ambizioso. La discesa agli inferi non doveva essere che l’inizio, il primo libro di una trilogia in cui erano previste anche una scalata purgatoriale e un’ascesa ai cieli. Puntava insomma a una personale Divina Commedia chiamata The voyage that never ends. Se le cose sono andate diversamente lo si deve a una certa disavvedutezza, per cui, a perdersi nella selva simbolica della vita, non era soltanto l’uomo Lowry ma anche quel che lui scriveva. Il testo di Ultramarina, suo romanzo d’esordio, venne dimenticato da un redattore sul sedile di un’auto e si perse per le strade di Londra, e se nel 1933 arrivò comunque nelle librerie, fu solo grazie agli scartafacci conservati da un amico. Una decina di anni dopo se la vide brutta anche Sotto il vulcano, il cui manoscritto fu salvato dall’incendio della capanna in Canada dove Lowry viveva assieme alla seconda moglie. Non tutto scampò purtroppo: assieme alla spartana dimora, il fuoco si divorò quasi per intero un altro romanzo. Vennero strappate alle fiamme soltanto le prime due pagine di un dattiloscritto che ne contava quasi duemila, oltre a due quaderni di appunti preliminari e qualche altra carta marginale: troppo poco perché stavolta si potesse tentare un’opera di ricostruzione.

E infatti Lowry si rassegnò; morì nel 1957 convinto che il libro fosse andato perduto per sempre e forse proprio per questo considerò la distruzione di Verso il Mar Bianco (traduzione di Marco Rossari, Feltrinelli, pp. 352, € 25,00) una delle grandi tragedie della sua vita. Ne parlava come del suo esito letterario migliore, l’atto conclusivo – il paradiso cioè – del suo disegno dantesco. Soltanto alle soglie di questo millennio, Jan Gabrial, prima moglie di Lowry, ha confermato che di quel libro sopravviveva molto di più, segnatamente una copia del romanzo in uno stato ancora acerbo, risalente al 1936 ovvero a quasi dieci anni prima dell’incendio. Un testo parziale, decisamente incompiuto e molto lontano da quello andato distrutto, ma comunque più che leggibile e sufficiente per farsi un’idea di ciò che avrebbe potuto essere il libro finito. Ammesso che avesse mai visto una fine, si intende. Nulla può essere dato per sicuro quando si parla di Lowry, ma su un punto è forse possibile pronunciarsi senza troppa paura di smentita: il suo modo di scrivere e vivere osteggiava ogni forma di compiutezza o almeno non la favoriva. Non a caso, con una punta di malizia ma non senza fondamento, introducendo la sua bella traduzione di Verso il Mar Bianco, Marco Rossari osserva che lo scrittore «non ricordava, o forse fingeva di non ricordare, di aver lasciato una copia carbone del libro alla prima suocera».

Uno scrittore norvegese
Che la smemoratezza potesse essere in parte simulata sembrano confermarlo parecchi indizi. Prendiamo una frase di questo tenore: «Se tu avessi mai fatto l’esperienza di scrivere un romanzo, per poi scoprire che era già stato scritto meglio da qualcun altro, come è capitato a me, avresti qualche buon motivo per sentirti finito». Si trova proprio in Verso il Mar Bianco, nelle primissime pagine, e sintetizza come meglio non si potrebbe l’argomento del libro. Sigbjørn, un giovane aspirante scrittore, studente a Cambridge, norvegese di nascita ma cresciuto in Inghilterra, decide di prendere il mare e andare a nord dopo avere scoperto che nella sua terra d’orgine vive uno scrittore più maturo di lui, il quale ha appunto scritto il suo stesso libro, meglio e prima di lui.

Per quanto artificioso possa sembrare, l’assunto ha un preciso fondamento biografico.
Quando era uno studente a Cambridge e tentava anche lui di trasferire in Ultramarina la proprie vita e in particolar modo le esperienze marinare di gioventù, Lowry si identificò in un altro scrittore, il norvegese Nordahl Grieg, al punto di convincersi che la sua vita e dunque anche il relativo romanzo fossero già stati scritti e, come avviene in Verso il Mar Bianco, andò in Scandinavia per incontrarne l’autore. Questa brama giovanile per l’autenticità – dove la fobia di essere un plagliaro e il sentirsi spossessato della possibilità di raccontarsi ed esprimersi dimorano in un’unica e inestrabicabile foresta – rientra certamente tra le tipiche angosce da romanzo di formazione. Lowry la spinge all’estremo, facendone un simbolo assoluto del mito dell’originalità che ha segnato le avanguardie del Novecento, da un lato, e della propria e personalissima vicenda di scrittore, dall’altro. Ma c’è di più. Quando il giovane protagonista di Verso il Mar Bianco, in una lettera a colui che considera il suo alter ego, si dichiara consapevole del fatto «che il rapporto di un autore con il suo protagonista è paragonabile a una corsa contro un’ombra», di fatto si propone quale anticipazione e ansioso presagio di Sigbjørn Wilderness, protagonista delle opere successive di Lowry, anch’esse destinate a diventare postume.

Prigioniero del «Vulcano»
Anche quel Sigbjørn sarà un chiaro doppio dell’autore e avrà lo stigma dello scrittore messo all’angolo, minacciato dal personaggio di un romanzo. Con una differenza, però. In quel caso la minaccia non sarà più rappresentata da un’opera altrui ma della propria; come a dire che da un dato momento in poi Lowry si sentirà prigioniero di Sotto il vulcano; che dalla paura di plagiare gli altri passerà a quella di plagiare di se stesso. Alla luce di tutto ciò, non è quindi privo di senso che Verso il Mar Bianco giunga a noi punteggiato di pagine sublimi ma in una versione ancora irrisolta e incompiuta. Doveva essere il paradiso di Lowry, ma per uno scrittore del suo stampo il paradiso non poteva essere che perduto.