La pubblicazione di un romanzo incompiuto rischia a volte di risolversi in uno spettacolo forzosamente osceno, come la visione improvvisa di un corpo non ancora completamente umano, che solo lo sguardo analitico dello studioso è capace di sostenere. Mentre per gli esperti e gli appassionati di Malcolm Lowry, l’uscita della prima edizione italiana di La mordida (traduzione di Marco Rossari, prefazione di Tommaso Pincio, Feltrinelli, pp. 416, € 29,00), uno dei romanzi che lo scrittore inglese non riuscì a portare a termine, è certamente un evento da celebrare, in tutti gli altri, soprattutto coloro che vogliono avvicinarsi per la prima volta a uno dei più celebrati narratori del secolo scorso, La mordida susciterà un certo disagio, non solo perché tra gli inediti di Lowry è certamente il testo meno prossimo al compimento, ma anche perché dai primi dipende in maniera quasi simbiotica.

Alcuni tra i caratteri più connotanti del romanzo cui lo scrittore deve interamente la sua fortuna, Sotto il vulcano, sono presenti anche nella Mordida, a partire dalla complessa costruzione dei piani temporali e dalla potenza allusiva della prosa, incredibilmente intricata e densissima di rimandi. Ogni testo di Lowry, compresi i suoi racconti, più che una foresta, è una galassia di simboli. Se Sotto il vulcano si ispirava al primo viaggio di Lowry in Messico, dal secondo soggiorno, nel 1945, sarebbero nati assai prematuramente due altri romanzi, Buio come la tomba dove giace il mio amico (Mondadori, 1971, ormai fuori catalogo) e, appunto, La mordida, che del primo è la continuazione. Insieme ad altri due testi, anch’essi incompiuti e a altri mai cominciati, questi tre romanzi «messicani» avrebbero formato nelle intenzioni di Lowry una specie di saga della disperazione, ovvero l’ambiziosissimo progetto intitolato Il viaggio senza mai fine.

Il narratore scrive all’avvocato
Sebbene l’associazione di scrittura e viaggio non sia nuova, il titolo è perfetto per il corpus di uno scrittore di opere non solo incompiute, ma che considerava perfino interminabili. Lowry pensava, infatti, anche Sotto il vulcano come un cantiere ancora aperto sin dopo la sua pubblicazione, tanto da continuare a trasmettere puntigliose modifiche al suo editore fino alla morte, nel 1957, in conseguenza dell’alcolismo che aveva dominato la sua vita e quella dei suoi personaggi. Per Lowry, che faceva coincidere il compito di ogni vero scrittore con la ricostruzione costante della propria opera in parallelo alle trasformazioni della vita, ogni romanzo era come un edificio in perpetuo miglioramento, sulla via di quello specifico tipo di realismo che Lowry inseguiva allo scopo di rendere con le parole il flusso proteiforme della realtà noumenica e fenomenica.

È in questa ottica che occorre leggere anche La mordida, dove si raccontano le disavventure di Lowry e di sua moglie Margerie in un viaggio da Quauhnahuac ad Acapulco, quando la coppia viene messa agli arresti domiciliari in un hotel per aver infranto le leggi sull’immigrazione messicana. Accusato di non aver pagato una multa di cinquanta pesos durante il suo precedente viaggio nel paese, Lowry sospetta in realtà un tentativo di estorsione da parte di agenti corrotti: la mordida, infatti, o morsicatina, è il corrispettivo messicano dell’italiano «bustarella».

Non senza una buona dose di pedanteria, lo scrittore racconta i fatti al suo avvocato in una lunga lettera collocata all’inizio del romanzo. Le quattrocento pagine che seguono sono di fatto una riscrittura narrativa di quegli accadimenti, la resurrezione e la revisione del passato attraverso «le ripetizioni e le ripetizioni e le ripetizioni dell’esperienza che bisogna sopportare, e che diventano sempre più amare ogni qual volta la lezione non viene imparata». Proprio per questo Sigbjorn Wilderness, lo scrittore alcolizzato che fa da alter ego a Lowry, sente di essere «diventato un personaggio, spostato di qua e di là dietro ai capricci di qualche altro romanziere». L’osservazione riguarda, in realtà, tanto il personaggio quanto il suo autore, che – nell’intento di ripercorrere il proprio passato – si rende prigioniero della sua narrazione, uno spazio piranesiano dove l’architettura è però incompiuta. Lowry ha spesso parlato della sua idea di romanzo come di una «cattedrale ciurrighesca», aggettivo che ricorre un paio di volte anche nella Mordida per indicare le bizzarrie architettoniche e le ridondanti decorazioni del Barocco spagnolo. In questo caso, la cattedrale del romanzo, ancorché incompiuto, è ricca di decori ma priva di una solida struttura narrativa a sorreggerli.

I primi capitoli, nonostante le sparse note parentetiche di Lowry e di Margerie, che lo aiutò nella redazione del dattiloscritto, sono notevoli, ma non abbastanza scintillanti da accendere la miccia del dispositivo romanzesco. Ben presto, tuttavia, il lettore si trova di fronte a un testo sempre più slegato e narrativamente stagnante, tanto che gli ultimi trentacinque capitoli consistono soprattutto degli appunti che Lowry aveva raccolto durante i suoi incontri con le autorità messicane, anch’essi intervallati da sempre maggiori intrusioni parentetiche che, soprattutto nel caso di Margerie (nel romanzo sotto in nome di Primrose) fanno l’effetto di stare origliando una conversazione privata – «Mi rifiuto assolutamente di essere descritta come una tale scema» – di cui non vorremmo essere messi a parte.

Altre annotazioni sono invece davvero molto illuminanti: sia sulla vita di Lowry, sia sul procedere della sua scrittura, sia sul senso del romanzo. «La Mordida – scrive l’autore in una nota – ha anche a che fare etimologicamente con il rimorso» e dunque, come sostiene Tommaso Pincio nella sua prefazione, con il passato del personaggio e dello stesso autore. Un passato che torna pedissequamente a chiedere il conto nella forma di una multa non pagata dieci anni prima. Solo rivivendo il passato, e dunque anche il passato della propria scrittura, nonché interpretandone le corrispondenze come segni carichi di significato, per Lowry è possibile creare un universo narrativo dinamico, «perpetualmente proteiforme» come l’esistenza.

Nella scrittura i moti della vita
È un progetto che condanna inevitabilmente lo scrittore a uno stato di frustrazione, esponendolo al rischio di ripetuti fallimenti: anche da qui sono nati i tanti progetti incompiuti e le infinite revisioni di Lowry. In uno dei brani più potenti di La Mordida, utile davvero a comprendere il difficile rapporto tra Lowry e la scrittura, Sigbjorn rievoca simbolicamente il ricordo di un vecchio cinegiornale in cui si vedeva un uomo in volo sul prototipo di un elicottero di sua invenzione: non l’iniziale gioia del pubblico colpì allora lo scrittore, né il diffuso sconcerto successivo, bensì il semplice vedere l’inventore che precipita «dal suo aggeggio, scalciando come un ossesso, come se provasse a correre per aria». A dispetto del tragico monito di questo Icaro moderno, La mordida mostra come Lowry abbia mantenuto fede, fino alla fine, al suo ambizioso progetto di catturare nella scrittura l’eterno movimento della vita.