L’inizio è in una chiesa col tetto sventrato, il funzionario osserva il cielo. Polonia, 1949, comunismo post bellico e cattolicesimo integralista cercando l’«anima popolare»: potrebbe già essere una dichiarazione di intenti. Wiktor è un musicista con la moglie girano nei villaggi alla ricerca dei canti tradizionali e popolari che registrano facendo cantare e suonare vecchi e bambini – un po’ come faceva Carpitella nel nostro sud – per rielaborarli nella nuova scuola che formerà la compagnia di danza e musica popolare.

Più della memoria perduta nel boom industriale italiano, l’obiettivo è recuperare le «tradizioni» per esaltarle nel socialismo che che vuole dare voce all’anima «genuina» del Paese, anche se ci vorrà poco perché tutto ciò diventi propaganda, balli e canti in costume come nei musical sovietici meno eccentrici (diciamo che non siamo dalle parti di Il Trattorista) sui palcoscenici polacchi e dei paesi del «blocco sovietico», un vortice di abiti contadini e ragazze sorridenti contro gli attacchi della «guerra fredda».

E Cold War, «Guerra fredda», è il titolo del nuovo film di Pawel Pawlikowski, il regista polacco premio Oscar per Ida, che come già in quel film sceglie un bianco e nero di patina vintage per restituire gli anni del socialismo reale, dalla fine del conflitto mondiale fino agli anni Sessanta, nella Polonia buia di funzionari e repressione.

Ma se Ida guardava alle suggestioni di un cinema polacco «nuova onda», qui il regista sembra orientarsi verso il pastiche: storia d’amore, melò, tragedia, spiritualità in cui utilizza tutto il possibile repertorio della rappresentazione di quell’epoca, a est come a ovest. La coppia dell’inizio presto scoppia, lui si innamora della bionda allieva sfrontata (ovvio), Zula, (Joanna Kulig) finita in prigione perché ha accoltellato i padre – «mi aveva scambiata per mia madre…» – lei è cattolicissima, al confessore racconta tutto, anche la loro relazione, ha una bella voce, balla con grinta, nel gruppo teatrale di tradizioni popolari (ispirato al Mazowse) diventa presto la stella. «Non ti lascerò mai» promette all’uomo, e l’amore sfiderà il tempo e la cortina di ferro. Lui fugge a Parigi, pianista di jazz, musicista per il cinema, lei appare e scompare, lui la perde e la ritrova, la insegue a costo di spaccarsi le mani in un campo di lavoro perdendo per sempre la musica. Quella Polonia non lascia scampo a chi vorrebbe la libertà dell’irrequietezza.

È una metafora come scandisce l’amica poetessa francese del pianista (cameo di Jeanne Balibar)? Il problema di Pawlikowski, che racconta di essersi ispirato nella storia d’amore ai suoi genitori (a cui è dedicato il film) è che si prende sempre sul serio ma non abbastanza per ottenere la libertà necessaria a rendere una storia di fantasmi, di «revenant». Come in Ida l’unica cosa che lo interessa è mettere tutto in ordine, con diligenza, senza lasciare spazio all’imprevisto. I margini non gli appartengono, e il suo sguardo come quello del funzionario polacco si chiude lì, ammiccando a quanto il pubblico si aspetta. Non basta per un amor fou (e per il cinema).