Tornano a risuonare le parole di Louise Michel, a 150 anni da quell’anomalia della storia che fu la Comune di Parigi, che dal 1871 continua come magma sempre caldo a interrogare chiunque si occupi di mondi possibili.
La sua cronaca appassionata de La Comune arriva in libreria per le Edizioni Clichy (pp. 352, euro 14) e viene tradotta e curata da Chiara Di Domenico, dopo l’edizione del 1969 allegata come omaggio da Editori Riuniti ai lettori di Rinascita.

È COME RIPERCORRERE con un dito la cartografia di questo evento mitico e caleidoscopico, disegnata da una delle sue più intelligenti protagoniste attraverso un mosaico di ricordi e riflessioni, dai combattimenti alla deportazione in Nuova Caledonia, dall’insorgenza alla repressione, dai cannoni di Montmartre ai processi sommari. Non smette mai di emanare forza questo racconto di cuore e di carne. Sembra farsi, anzi, più adamantino per la capacità che ha di indagare quella che fu una irruzione dell’imprevisto nella ruota della storia, la cui stessa possibilità riesce a regalare una vertigine a quell’orientamento lineare, sempre destinato al declino delle idee di giustizia sociale. Già nel suo posizionamento, alla fine dei manuali di storia moderna, quando Napoleone III stinge la sua ossessione di grandezza antiprussiana in una sconfitta che relega la Francia a un nanismo a misura del suo condottiero, la Comune ribalta le cose, diventando bagliore da supernova nel cielo delle guerre tra stati.

Marx ne parlerà «come il primo governo del popolo operaio, Bakunin come della prima rivoluzione della città contro lo Stato dei proprietari e dei borghesi», si legge nella prefazione. Ma la Comune fu anzitutto il sovvertimento del processo di individuazione del nemico. Si spiega bene questo nelle lettere riportate da Louise Michel parlando dell’Internazionale: non più il tedesco o il polacco nella veste di invasori, solo l’oppresso contro l’oppressore. Lungimiranza splendente che come una freccia attraversò gli anni fino alla rivoluzione del ’17, cominciando proprio con la solidarietà tra i militari delle opposte frontiere, uomini che smettevano di combattere per morire: nella Comune, prima, nel 1917, poi, si decise di invertire tutto: si combatteva non per la gloria degli stati ma per la felicità di tutti.

È POTENTE la cronistoria di Michel su come si arrivò a sparare sugli orologi dell’oppressione: «La morte fondeva l’aria. Io avevo rubato un pugnale a mio zio e mi ero vestita da uomo. Il corteo si allungava immenso, suscitando una certa inquietudine: avevamo freddo, eppure gli occhi bruciavano come se fossero infiammati. Ci sembrava di essere una forza alla quale niente e nessuno poteva resistere». La protagonista e narratrice non sa solo incarnare e raccontare l’insurrezione.
In queste pagine, la sua voce commenta con postura alare il corso degli eventi, stana il potere dalle sue miserie. Come quando commenta, con parole d’avanguardia, l’atteggiamento del governo pochi mesi prima dell’insurrezione, all’epoca del processo di Victor Noir, giornalista de La Marseillaise ucciso dal cugino di Napoleone III: «L’impero faceva attorno a sé un gran fracasso – scrive – , proprio come usano fare i governi che hanno bisogno di distrarre da sé l’opinione pubblica. Complotti fatti in casa, bombe lanciate da spie prezzolate, scandali, delitti scoperti al momento opportuno ma conosciuti da tempo e tenuti in caldo. Insomma tutte quelle cose che abbondano al tramonto di ogni regno».

O COME QUANDO definisce la vita di un traditore della causa con poche pennellate piene di forza, «con andatura malferma cammina e di volta in volta si guarda indietro come se qualcuno lo seguisse: ciò che vede è il suo tradimento».
Passa poi con indomita dolcezza in rassegna i volti e le storie delle signore condannate alla prigione in Nuova Caledonia, quella rea solo di aver partorito due comunardi o l’amica che ha rinforzato una barricata con le statue dei santi. «All’epoca della nostra partenza si contavano 39.205 verdetti della giustizia di Versailles», ci ricorda Louise Michel mentre descrive il viaggio verso quella colonna penale messa ai confini del mondo.
Si vergogna di trovare il viaggio così bello. Di provare meraviglia quando appare l’alto mare del Capo. Trova commovente la popolazione che accorre per portare frutta al loro bastimento. «In cima a una delle nostre gabbie era possibile godere ancora meglio dello spettacolo», Sembrano parole di un viaggiatore e invece raccontano il lato dorato della storia degli oppressi che si ribellano.