Il celebre precetto cèzanniano che esortava a riprodurre artisticamente la realtà attraverso il filtro di figure primarie quali il cilindro, la sfera e il cono sembra adattarsi in maniera puntuale sia alla poetica dell’architetto Louis Kahn (1901-’74) sia al linguaggio del fotografo milanese Roberto Schezen (1950-2002). I due autori – entrambi attratti dall’essenziale monumentalità delle forme classiche e attenti alla restituzione degli effetti chiaroscurali creati dall’incastro dei volumi architettonici nello spazio – sono posti al centro della piccola ma preziosa mostra, a cura di Simona Antonacci e Elena Tinacci, Architettura, silenzio e luce Louis Kahn nelle fotografie di Roberto Schezen al MAXXI di Roma (fino al 2 giugno).
L’esposizione – resa possibile grazie all’acquisizione di una parte del Fondo fotografico Schezen generosamente donato da Mirella Petteni Haggiag – non si presenta come un omaggio inerte a uno dei più autorevoli protagonisti della cultura architettonica del XX secolo; al contrario, essa stimola una lettura eterodossa e non scontata degli edifici kahniani invitando a cogliere dettagli visivi apparentemente marginali ma sorprendenti – la perfetta trama del reticolato di un soffitto a cassettoni, la segreta, e inaspettata, sintonia tra vani di diversa ampiezza aperti in mezzo a una superficie muraria, la ritmata reiterazione di corpi aggettanti – tramite l’obiettivo di Roberto Schezen, talentuoso e prolifico fotografo, prematuramente scomparso nel 2002, il quale ancora attende un riconoscimento ufficiale. In tal senso il MAXXI non solo offre l’opportunità di riscoprire un professionista per decenni attivo, tra Italia e Stati Uniti, nell’ambito della fotografia di architettura ma, sulla scorta di un recente indirizzo della critica che, proprio negli ultimi anni, è tornata ad affrontare da più latitudini l’opera di Louis Kahn – si vedano, per l’Italia, i contributi di Elisabetta Barzizza e Gabriele Neri – invita a meditare sugli innumerevoli spunti progettuali ed estetici insiti in famosi complessi come il Salk Institute for Bilogical Studies in California (1959-’65) e la biblioteca della Phillips Exeter Academy nel New Hampshire (1965-’72).
Il lascito kahniano ha profondamente influenzato tutta una generazione di progettisti tesa, dalla metà degli anni sessanta, ad ampliare il repertorio linguistico delle stanche, e manieristiche, manifestazioni epigonali dell’International Style. Immortalare tramite il mezzo fotografico le creazioni dell’architetto d’origine estone ma formatosi negli U.S.A. risulta dunque impresa non facile, specie se si tiene conto dei successivi sviluppi dell’architettura – non solo americana – e il precoce ruolo di maestro assunto da Kahn, docente prima a Yale e poi presso la University of Pennsylvania. Alla luce del suggestivo e tutto personale punto di vista maturato da Roberto Schezen nei confronti dell’opera di Kahn risulta quindi fondamentale acennare ai suoi studi condotti, dopo il 1968, presso la Facoltà di Architettura di Milano a contatto con personaggi come Paolo Portoghesi, insigne progettista nonché abile fotografo d’architettura. Proprio in virtù della sua peculiare formazione, Schezen si è avvicinato da «specialista» all’entità architettonica e, soprattutto, è riuscito a intessere con essa un processo di conoscenza. Il fotografo milanese, da quanto emerge dalla campagna fotografica oggetto della mostra del MAXXI, non si è limitato a osservare in maniera passiva il capolavoro kahniano né tantomeno ha inteso estetizzarlo in modo effimero e fittizio; pur nella ricerca della piacevolezza visiva che, concretamente, si risolve in una non comune capacità di gestire la struttura compositiva dell’immagine, egli ha impostato una lettura critica del manufatto architettonico prescelto cercando di comprenderlo sia sul piano iconico che tecnico. Nel caso specifico, si mostra consapevole delle novità che edifici come l’Indian Institute of Management ad Ahmedabad (1962-’74) hanno suscitato all’interno del dibattito sul Movimento Moderno e, attraverso molti dei suoi scatti, egli sembra meditare sull’afflato monumentale e sui residui classicisti che fanno di Kahn uno dei precursori della sensibilità postmoderna; basti osservare l’alone sottilmente onirico con cui Schezen sceglie di documentare il progetto forse più piranesiano di Kahn – ovvero l’Assemblea Nazionale del Bangladesh a Dacca (1962-’83) – rievocato come una fortezza antica e, a tratti, come una Xanadu modernista. Nella duplice veste di «architetto-fotografo» Schezen ha tentato, così, di riscattare la tradizionale piattezza dell’immagine fotografica suggerendo un’idea della caratteristica tridimensionalità semantica dell’architettura; non a caso, alla base di tale sfida è ben riconoscibile un lavoro di «progettazione» e di «costruzione» dell’immagine condotto mediante una calibrata armonizzazione dei contrasti chiaroscurali e dei piani prospettici.
Attraverso un allestimento semplice ma d’impatto che evidenzia contemporaneamente la qualità formale degli scatti di Schezen e l’unicità delle creazioni di Kahn, la mostra presenta materiale fotografico di diverso tipo e dimensione – negativi a colori, positivi stampati dall’autore ai sali d’argento, grandi riproduzioni realizzate ex novo dalle diapositive originali – utilizzato originariamente per illustrare l’importante monografia di Joseph Rykwert pubblicata da Abrams nel 2001 in occasione del centenario della nascita di Kahn. Percorrendo la piccola sala del MAXXI si ravvisa subito una intensa sintonia tra Schezen e Kahn. L’icasticità dell’architettura di quest’ultimo risuona con forza nelle riprese del fotografo il quale, da parte sua, sembra aver compreso e, soprattutto, introiettato in maniera profonda il senso kahniano del costruire. L’assonanza tra i due deriva anche dal comune indulgere a una classicità astorica e solenne, riecheggiante Loos, de Chirico, ma anche gli architetti visionari di fine Settecento Ledoux e Boullée. La condivisione delle radici culturali ebraiche ha poi fatto sì che entrambi maturassero una visione dell’architettura fondata su forme pure, archetipiche, quasi bibliche. Sia Schezen che Kahn, inoltre, rivelano una spiccata predilezione per un utilizzo della luce fortemente espressivo e di lontana ascendenza metafisica. Tale aspetto emerge chiaramente sia nelle fotografie in bianco e nero sia in quelle a colori esposte lungo le pareti e, qui e là, inframmezzate da riproduzioni di brevi stralci di pensieri di Kahn che aiutano a materializzare, in una dimensione non solo visiva ma anche verbale, la sensibilità dell’architetto. Infine, di particolare interesse si rivela l’ultima sezione della mostra che, attraverso una sintetica selezione di libri e articoli di riviste d’epoca, intende illustrare la precoce quanto intensa fortuna di Kahn nel nostro Paese.