«Nel trattare i problemi della storia universale, il figlio della moderna cultura europea formulerà inevitabilmente la seguente domanda: per quale concatenazione di circostanze proprio qui, in Occidente, e soltanto qui, si sono prodotti dei fenomeni culturali i quali – almeno per come ci piace raffigurarceli – hanno avviato una direzione di sviluppo dal significato e dalla validità universali?». Con queste parole, ormai un secolo fa, Max Weber dava espressione a un enigma che, da allora in poi, non ha mai smesso di assillare le scienze sociali, assumendo una coloritura via via più intensa a ogni nuova svolta della cosiddetta «crisi della civiltà moderna».
In sintesi, il problema è questo: la civiltà «moderna», che si è consolidata in alcune aree dell’Europa centro-settentrionale fra il Seicento e il Settecento, non è una qualunque cultura fra le altre: è un’eccezione, un unicum basato su istituzioni e meccanismi sociali che non hanno uguali nella storia; eppure questa creatura eccezionale pretende una validità universale con tanta ostinazione e coerenza da neutralizzare, sedurre e assorbire qualunque obiezione critica che si ponga sul terreno della razionalità formale.

Cecità ai propri limiti
Un simile intreccio di universalità ed eccezione ha conferito al modello moderno di civiltà un potere di attrazione formidabile, consentendogli di travolgere e trascinare nel proprio cammino tutte le culture della terra. Allo stesso tempo, però, lo ha reso cieco ai propri limiti e sempre più impotente di fronte alle proprie contraddizioni interne: incapace di progettare un’alternativa persino di fronte alle crisi più acute, quando l’Illuminismo ha rischiato di capovolgersi in barbarie, la razionalità in totalitarismo e la potenza tecnica in devastazione della terra.
È su questo nodo problematico che si sono concentrate (e a tratti anche scontrate) le migliori forze del pensiero critico europeo, da Adorno a Foucault. E ad esso è dedicata anche la monumentale ricerca di Louis Dumont sulla «ideologia moderna», raccolta nei due volumi di Homo Aequalis (I. Genesi e trionfo dell’ideologia economica – II. L’ideologia tedesca, traduzioni di Guido Viale e Marina Valensise, Adelphi, «Nuova serie», pp. 642, e 36,00).

Rispetto ad autori di matrice strettamente filosofica, l’originalità del contributo di Dumont sta nella sua profonda competenza antropologica (era stato allievo di Marcel Mauss) e, soprattutto, nella lunga esperienza sul campo che gli aveva consentito di pubblicare nel 1967 Homo hierarchicus: il più competo studio sul sistema indiano delle caste apparso fino a quel momento, che lo avrebbe situato stabilmente fra i maggiori studiosi occidentali della cultura indiana. Una tale esperienza pregressa permette a Dumont di rivolgersi alla propria cultura di origine con uno sguardo allenato all’altrove, creando le condizioni per quel genere di comparazione radicale su cui insisterà poi in tutte le sue opere mature: una comparazione in cui l’autore pone in gioco se stesso, smantellando consapevolmente i luoghi comuni e le certezze su cui poggia la sua stessa identità sociale. Resta solo da aggiungere che, nel caso specifico di Homo aequalis, per capire come opera il metodo comparativo è essenziale tener conto della notevole distanza cronologica fra i due volumi, apparsi l’uno nel 1977 e l’altro nel 1991 (con l’intermezzo di una raccolta di scritti sullo stesso tema, pubblicata nel 1983 col titolo di Essai sur l’individualisme).

L’ideologia moderna
Il primo volume è interamente consacrato alla ricostruzione dell’ideologia moderna attraverso il vettore che Dumont considera storicamente decisivo: l’evoluzione dell’economia politica, dai fisiocratici fino a Marx, presentata come l’affermazione progressiva di una vera e propria «ideologia economica», destinata a ridisegnare poco a poco la vita sociale nel suo insieme. In questo primo studio, la contrapposizione con il modello «olistico» – prevalente nelle culture tradizionali e di cui l’India fornisce il paradigma – è netta e priva di mezze misure: alla «predominanza della totalità sociale sull’individuo, cioè l’olismo», che implica inevitabilmente subordinazione e gerarchia, la modernità oppone l’individualismo possessivo; sul rapporto degli uomini tra loro prevale ora il loro rapporto con le cose, mentre il nesso un tempo fluido tra fatti e valori cede il posto alla loro totale scissione.
Il punto cruciale dell’argomentazione, indispensabile per giustificare un’opposizione tanto rigida, è la tesi che anche la critica dell’economia politica, condotta da Marx, resti nei limiti dell’individualismo e ne costituisca, anzi, l’autentico trionfo. Una tesi che suonerà quanto meno sorprendente a chi ricordi l’insistenza di Marx sul carattere intrinsecamente sociale della produzione e il suo sarcasmo contro le «robinsonate» dell’economia classica. Tanto più che Dumont non si sforza affatto di nascondere queste derive «olistiche» nei testi di Marx, ma le sottolinea invece apertamente, deciso a dimostrare che, sotto la pressione dell’ideologia emancipativa ereditata dall’Illuminismo, Marx non avesse altra scelta che sacrificare le sue intuizioni più profonde, pur di garantire all’individuo del futuro la liberazione da ogni subordinazione e gerarchia.

Consapevole dell’azzardo interpretativo, Dumont dedica a questo aspetto quasi metà del volume. Alla fine però è difficile sfuggire all’impressione che, pur di includere ogni aspetto del confronto, l’opposizione tra olismo e individualismo finisca a tratti con l’apparire troppo angusta, schematica e priva di dialettica interna: una critica del resto che, anni prima, era già stata sollevata, in senso inverso, dai lettori più severi del saggio sulle caste indiane. Occorrerà passare al secondo volume perché una simile rigidità si sciolga, lasciando emergere un quadro molto più ricco e sfaccettato.

Qui il metodo comparativo sembra muoversi, a prima vista, in uno spazio molto più ridotto. A essere poste a confronto sono infatti due declinazioni della stessa ideologia moderna: da un lato quella dominante, identificabile con l’Illuminismo francese, dall’altro quella maturata invece sul suolo tedesco, attraverso l’Idealismo filosofico e la grande stagione letteraria che da Goethe giunge fino a Thomas Mann. Ma il dubbio che tutto possa risolversi nel semplice confronto fra due varianti nazionali della stessa ideologia vincente è fugato fin dalle prime pagine, grazie al riferimento esplicito al quadro, opaco e preoccupante, offerto dalla globalizzazione in corso.

L’instabilità moderna
Benché infatti, a fine anni Ottanta, l’impostazione moderna stesse ormai dilagando su tutta la terra, Dumont ne trae di fatto la certezza che «l’individualismo non solo è incapace di sostituirsi completamente all’olismo e dominare sull’intera società, ma non è mai stato capace di funzionare senza il contributo che l’olismo, in maniera inosservata e in un certo senso clandestina, ha dato alla sua stessa esistenza». In pratica, perciò, quella che sta prendendo forma in ciascun angolo della terra non è l’apoteosi dell’individuo ma, di volta in volta, un’ibridazione tra la visione olistica della cultura tradizionale e l’individualismo illuministico, che in nessuna società può realmente affermarsi da solo, nemmeno in Europa o negli Stati Uniti, come dimostrano le misure «postliberali» che governano l’economia dal New Deal in poi. L’ideologia tedesca che dà il titolo al volume non è quindi solo un capitolo di storia delle idee, ma il paradigma di una tale ibridazione che, per quanto praticata ai livelli più sofisticati della letteratura e del pensiero, illustra in modo esemplare l’instabilità e i pericoli che minacciano il mondo ipermoderno.

A giudizio di Dumont, infatti, la paradossale mescolanza di olismo e individualismo non può raggiungere mai un vero equilibrio, ma è costretta a un continuo esercizio di Steigerung, di intensificazione e di rilancio, un po’ come nella dialettica distruttiva del potlach messa a fuoco a suo tempo da Mauss. È così che la concezione «etnica» della nazione, forgiata da Herder come contrappunto olistico all’illuminismo, finisce inesorabilmente per sfociare nel totalitarismo hitleriano, paradossalmente infarcito di un genere di darwinismo sociale prettamente moderno, in cui è la lotta per la sopravvivenza tra individui a governare la dinamica sociale.

Non è facile valutare fino a che punto una teoria tanto generale e ambiziosa riesca effettivamente a gettare luce sull’enigma tracciato da Weber. Di sicuro, rispetto a concezioni all’epoca molto più ingenue e ottimistiche sulla «postmodernità» (citate fuggevolmente nel testo), la prospettiva di Dumont coglie in anticipo alcuni degli aspetti più inquietanti del presente: ad esempio la bipolarità, oggi onnipresente, tra le forme asettiche del governo economico globale, da un lato, e le varianti locali dei movimenti identitari e sovranisti dall’altro. O l’inattesa fortuna politica di quelle che Arjun Appadurai chiama le «identità predatrici», costruite e compattate sulla comune ostilità verso minoranze esigue, povere e particolarmente indifese.

Ciò non toglie che un uso costruttivo delle idee di Dumont, che intenda farne fruttare le intuizioni più stimolanti, non possa esimersi dal compito di sciogliere l’opacità interna di quella che, nel libro, è forse la parola-chiave: l’ideologia (economica, moderna, tedesca, ecc). Logicamente, il concetto qui non indica affatto, come nel marxismo, la falsa coscienza che deforma e nasconde la «realtà» depositata nella struttura produttiva. Al contrario, ciò su cui Dumont insiste è proprio il valore primario delle idee e delle aspettative condivise, che incidono a suo parere con tanta più forza sull’evoluzione sociale quanto più sfuggono alla consapevolezza dei singoli attori.

Eppure, è difficile non percepire come un limite il fatto che l’analisi antropologica, per quanto ricca, non sembri qui disporre di altro materiale che la storia delle idee. L’attenzione per l’ideologia sembra insomma assorbire e cancellare ogni interesse per le pratiche sociali. Persino nel confronto con l’economia politica, manca una considerazione approfondita delle istituzioni cui la teoria fa da sponda: il mercato, ad esempio, o anche semplicemente la moneta. Come momenti di una ideologia, le teorie sembrano spogliate di ogni rapporto con la prassi e non è escluso che sia proprio questo a renderle impotenti di fronte a problemi che, a dispetto della loro complessità speculativa, restano in primo luogo problemi pratici.

Un pensiero critico all’altezza del presente dovrebbe oggi riportare la presunta «ideologia» al suo legame strutturale con le pratiche sociali, le tecniche di governo e le dinamiche istituzionali. Forse, a quel punto, persino la combinazione tra «i valori antagonistici di olismo e individualismo», che per Dumont resta la chiave dell’instabilità moderna, perderà almeno in parte la sua apparenza di inesorabile distruttività.