Alla fine della prima vera giornata nera del Pd post renziano, il segretario Nicola Zingaretti può dire solo ‘fino a qui tutto bene’. Fino a qui. Luca Lotti, ex braccio destro di Matteo Renzi si è autosospeso dal Pd, i renziani inneggiano al suo «amore per il partito» e accusano, più o meno esplicitamente, il leader di «giustizialismo» e di tentativi di «epurazione», «ormai non ci mandano neanche più in tv».

IL PD È SCIVOLATO in pochi giorni in una guerra civile. Fino a qui a uscirne male sono le minoranze. Quella renziana, perché Lotti è stato principale petalo del «giglio magico» e da poco, dopo mesi di freddo, si è riavvicinato al senatore di Scandicci. E quella moderata appena fondata dallo stesso Lotti e Lorenzo Guerini, la corrente Base riformista, da cui Lotti aveva deciso di «autocongelarsi» già da qualche giorno. L’assemblea dell’area è fissata per il 5 e il 6 luglio, ma certo gli ultimi giorni hanno pesato sui renziani «realisti» sempre più in difficoltà nella loro funzione di ponte con il nuovo corso del Pd.

MINORANZE SOTTO SCACCO, dunque. Complice il continuo sgocciolamento sui media di intercettazioni. Con omissis, molti. E che restituiscono – ma sulla base delle parti che vengono rese note – un Lotti molto interno alle lotte di palazzo dei Marescialli, attivo e persino indispettito verso il compagno di corrente Davide Ermini, vicepresidente del Csm, ormai in linea con il Colle e non più con i desiderata dell’amico fiorentino che pure molto si è speso per la sua nomina.

Un pasticcio inestricabile, tanto più che secondo i boatos dall’inchiesta ancora dovrebbero «sgocciolare» altre indiscrezioni.

PER ORA ZINGARETTI, dal centro della battaglia che infuria fra i dem, para i colpi e conclude la giornata in una bella libreria di periferia di Roma, I Granai, con lo scrittore Gianrico Carofiglio che era stato fra i primi a chiedere il «passo indietro» a Lotti e che ora fa del sarcasmo sull’istituto dell’«autosospensione». Il segretario Pd cerca di fare il garantista: «Io ho visto cosa vuol dire essere messi nel tritacarne e poi uscire totalmente estranei da una vicenda giudiziaria», dice, «no al giustizialismo di partito», «L’autosospensione non è una resa o una fuga, ma il diritto di una persona di difendersi senza che questo coinvolga il partito».

QUELLA DI LOTTI IN EFFETTI non suona come una resa incondizionata. Al mattino l’ex ministro legge dalle colonne del Corriere della sera l’attacco durissimo di Luigi Zanda, politico di lunghissima navigazione, vicino al segretario ma soprattutto vicino a Paolo Gentiloni, oggi tesoriere del partito: «Lotti valuti se è il caso di lasciare il Pd». Nel primo pomeriggio Lotti annuncia l’autosospensione dal Pd. Ma la motivazione è un attacco alle ipocrisie dem, ed è tutto da decrittare: «Fa quasi sorridere che tale richiesta arrivi da un senatore di lungo corso già coinvolto – a cominciare da una celebre seduta spiritica – in pagine buie della storia del Paese», dice all’indirizzo di Zanda e del suo indimenticabile «coinvolgimento», da portavoce di Cossiga, nella seduta spiritica che avrebbe rivelato l’indirizzo del covo delle Br di via Gradoli durante il rapimento Moro, anno 1978. Lotti si dimette «per rispetto e affetto verso i nostri elettori», «non perché qualche moralista senza morale oggi ha chiesto un mio passo indietro». Poi esplode: «Quanti miei colleghi, durante l’azione del nostro governo e dopo, si sono occupati delle carriere dei magistrati?».

LE CENE DI LOTTI, rinviato a giudizio per il caso Consip, e le sue conversazioni esplicite con alcuni magistrati, in primis l’indagato per corruzione Luca Palamara, non sono (almeno fin qui) ipotesi di reato ma certo sono una sgrammaticatura politica. Ma la controaccusa generica «così fan tutti» fa colpo. Soprattutto nel Pd non renziano a cui evidentemente si indirizza.

QUELLO RENZIANO si scatena in difesa: «Il Pd non può essere garantista a fasi alterne» (Andrea Marcucci), «il garantismo nel Pd sta come le foglie d’autunno sugli alberi» (Luciano Nobili), di «gogna mediatica» parla Alessia Morani, e di un Pd malato di «furia giustizialista».

L’OBIETTIVO È IL SEGRETARIO, che annuncia l’apertura di una discussione sulla riforma del Csm («Quello che mi permetto di dire è che dobbiamo stare attenti a un punto e cioè che non si utilizzi questa fase per introdurre tentazioni che ci sono sempre state nel dibattito politica e magistratura. Il faro deve essere sempre garantire autonomia magistratura») . Ma formalmente ringrazia Lotti della scelta di autosospendersi. Non ne ha chiesto le dimissioni perché, avevano chiarito i suoi dal primo giorno, il comportamento di Lotti è politicamente eccepibile – quanto meno – ma non è un reato. Eppure Zingaretti ha piantato la sua bandierina: quello di Lotti non è il suo Pd («Il partito che ho in mente non si occupa di nomine di magistrati») e Lotti non andava alle cene su suo mandato. A nome di chi ci andava? Proprio, da parlamentare, come rivendica lui stesso, o a nome del partito nel partito, quello di Renzi?

GUERINI, CHE È ANCHE presidente del Copasir, butta acqua sul fuoco della polemica apprezzando «la qualità politica e umana» dell’ex socio fondatore della sua corrente.

MA ALTRO CHE CHIACCHIERE sulla futuribile ’cosa centrista’: la crepa nel Pd stavolta si è aperta sul serio. Oggi ad Assisi si riunisce l’assemblea dei turbo- renziani, ed è probabile stasera la crepa si sarà allargata. Anche perché Lotti si autosospende ma certo non si autocensura affatto, anzi. Quando se la prende con Carlo Calenda, che definisce il suo comportamento «inaccettabile», replica al veleno: «Sono convinto che diresti la stessa cosa se dovesse emergere che in passato altri nel Pd hanno ‘messo bocca’ sulle nomine o incontrato magistrati». Un’allusione a circostanze che – vuol far sapere – nel partito sanno anche altri . Zingaretti sopisce e smorza le polemiche. Ma quello che è uscito dal pentolone scoperchiato del suo partito è troppo. Troppo perché nel Pd tutto torni come prima.