«Kamagasaki è un ghetto per lavoratori a giornata ed altri membri del sottoproletariato. I lavoratori a giornata sono tutt’ora marginalizzati nonostante il loro contributo alla crescita economica giapponese del dopoguerra. Gli uomini aspettano ogni giorno i subappaltatori illegali per avere dei lavori pericolosi senza nessuna indennità, mentre le donne lavorano per la maggior parte nel settore dei servizi, inclusa la prostituzione. La malavita usa e minaccia gli abitanti della zona, la polizia li opprime e gli speculatori edilizi cospirano per liberarsi di loro. Vivendo in un calderone di odio represso, le persone della zona sono hanno un forte senso di autonomia e di gruppo che porta a periodiche rivolte».
Inizia con questa lunga ma significativa introduzione uno dei film meno incasellabili usciti in Giappone negli ultimi tempi. Si tratta di The Kamagasaki Cauldron War, uscito nell’arcipelago lo scorso anno, ma che ha piano piano trovato una sua distribuzione nel circuito indipendente nel corso del 2018 e di questo inizio anno. Debutto dietro la macchina da presa per il regista Leo Sato, già collaboratore del documentarista Makoto Sato, la pellicola è ambientata e girata nel quartiere «slum» di Kamagasaki a Osaka.

MA AL CONTRARIO di molte altre opere che hanno raccontato queste zone rimosse dalla società giapponese, The Kamagasaki Cauldron War è un misto di comicità e serietà, una farsa dai toni qui e là surreali che esplora, senza però santificare e glorificare, la varia umanità che in questo calderone è nata e cresciuta. Le vicende raccontate partono dal furto, quasi casuale, di un kama, il calderone del titolo, in pratica una vecchia pentola dove far bollire il riso, in questo caso uno molto particolare perché è il simbolo di una famiglia yakuza, e oggetto usato durante la cerimonia di passaggio delle consegne generazionali. La ricerca di questa pentola scatena una serie di rivolte e semplici atti di furto che coinvolgono un bambino delle scuole elementari due orfani nati e cresciuti nella zona ora adulti, lei prostituta indolente, lui nullafacente che vive di espedienti.

IL FILM, costruito quasi in piccole vignette ed episodi, è un’opera assai inclassificabile ed originale, in parte satira che denuncia le pressioni di polizia, yakuza e dello stato stato per liberarsi di questa part maudite della società nipponica, in parte però anche presa in giro di certo modo astratto di concepire la lotta sociale nella post modernità.
Il caotico universo che il film mette in scena attraverso le location originali di Kamagasaki, con le sue baracche e i senza fissa dimora che girano in cerca di lattine vecchie da vendere per guadagnare quattro soldi, insomma una banda sganassona di prostitute e ladruncoli, è una sana e sporca boccata di aria fresca, mai autoglorificatrice come si diceva, che è molto più viva di tanto luccichio moderno con cui il Giappone cerca di vendere la sua immagine all’estero. Il film, e si tratta proprio di una pellicola visto che è girato in un denso e saturo 16mm, quasi per dare un senso di uno spazio fuori dal tempo, usa attori professionisti e comparsate di persone che abitano realmente nella zona. Forse il più riconoscibile è Kiyohiko Shibukawa, volto presente in molte opere indipendenti nel cinema giapponese degli ultimi anni, ma tutti i protagonisti, anche grazie al forte e caratteristico accento della zona di Osaka, formano un amalgama molto particolare che resta impresso nella memoria, anche il piccolo cameo di Masao Adachi, regista e rivoluzionario, che interpreta un comico personaggio che scava un buco nel suolo per scappare dalla realtà.

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