Una singolare protesta si è svolta ieri a Quito, per commemorare le 98 donne uccise dalla violenza domestica nella Capitale, dal 2013 a oggi; 98 paia di zapatos rojos (scarpe rosse), sono rimaste esposte per due ore sulla piattaforma della Plaza de los Presidentes, a nord di Quito, ognuna con una targa contenente i dettagli degli omicidi perpetrati.

Zapatos Rojas

Negli anni 2012 e 2013, secondo i dati forniti dal Municipio di Quito, sono avvenuti in Ecuador quasi 150.000 episodi di abusi familiari e sessuali ai danni di donne e bambini. Il Paese ha circa 14 milioni di abitanti, censiti ufficialmente. Se si considera che le statistiche riguardano in particolare Quito, Guayaquil, e i centri principali della Sierra andina, e che molte zone del Paese, tra cui la costa di Esmeraldas, le comunità indios più remote, e l’Amazzonia, sono tagliate fuori da questo monitoraggio, la cifra è a livelli d’emergenza.

Secondo l’INEC, (Instituto Nacional de Estadìsticas y Censos) 6 donne su 10 hanno subito almeno una volta una violenza di genere, e il 76% delle donne, abusi da parte dei loro partner.

Solo a Guayaquil, nel 2012, si sono verificati 40 casi di donne brutalmente assassinate all’interno del nucleo familiare. Nella stessa città, le denunce di violenza domestica, hanno registrato una preoccupante escalation, 15.800 nel 2010, 19.000 nel 2011, 22.000 nel 2012. E parliamo solo di denunce ufficiali; molte violenze sono soffocate nel silenzio, per paura di vendette.

Le cause sono soprattutto da ricercare nell’ambito della sottocultura machista dell’America Latina in generale; l’Ecuador registra una delle percentuali più alte di abusi contro le donne, il 14%, e supera anche la Colombia, che si assesta a l’11%. Però l’Ecuador è un piccolo Stato.

Il fatto che la maggior parte delle donne, continui a dipendere dal reddito dei propri partner, incide molto, soprattutto nel caso di relazioni vissute all’interno delle famiglie di rispettivi mariti e compagni. Quasi il 75% di casi in più, comparati alle coppie che vivono per conto proprio. E questo la dice lunga, sull’influenza negativa che generi e suocere esercitano sui coniugi.

La forte religiosità che caratterizza il popolo ecuadoriano, cattolico al 90%, non aiuta a risolvere questa tara, anzi a volte l’accentua. Il prete sovente, nei casi di violenza domestica, cerca di dissuadere la vittima a rivolgersi alle autorità: No lo puedes hacer, porque es tu marido. La mentalità vigente infierisce parecchio sulle divorziate, bollandole come donne di facili costumi, che non tengono al bene dei loro figli, incapaci di sopportare con cristiana rassegnazione le prove che la relazione coniugale impone loro. I casi di violenza aumentano notevolmente, all’interno di coppie con problemi economici e istruzione limitata, dove la figura del coniuge “che porta i soldi a casa” è privilegiata, in contenziosi del genere, dalla comunità circostante.

La riforma del Còdigo Integral Penal Ecuatoriano, approvata a marzo, che ha introdotto tra l’altro l’art. 146 contro la malpratica sanitaria dei medici, ha inserito anche el feminicidio e la violenza contro le donne in genere, nell’elenco dei delitti contro la persona, al pari della tratta degli esseri umani e il traffico di immigrati clandestini. Ora l’obiettivo finale è quello di applicare questa nuova legge in tutto il territorio nazionale, vincendo pregiudizi e resistenze culturali. Resta una delle tappe più difficili da perseguire, nel cammino delle riforme, tenendo anche conto delle difficoltà logistiche legate al territorio.

Nel Municipio di Quito, abbiamo visitato il più importante dei Centros de Equidad y Justicia Contra Violencia Intrafamiliar y Sexual, gli organismi municipali che cercano di porre un freno agli abusi su donne e minori. I Centri perseguono l’obiettivo di avviare programmi per il recupero di donne maltrattate, attraverso i seguenti punti:

1) Educazione culturale, allo scopo di combattere i pregiudizi sociali, che sono alla base della violenza all’interno delle famiglie.

2) Accompagnamento delle vittime, soprattutto attraverso l’opera di psicologi, che cercano di ricostruire il tessuto emozionale distrutto per mano degli abusi, e restituire alle donne l’autostima perduta.

3) Assistenza legale gratuita, contro i partner violenti, gli abusi sessuali, e i maltrattamenti inflitti ai bambini, che sono spesso conseguenze di questi conflitti.

4) Assistenti sociali, che hanno lo scopo primario di aiutare le vittime sul territorio, e di procurare loro alloggi gratuiti dove rifugiarsi, lontani dall’ambiente dove le violenze sono maturate.

Alla Direttrice, Belén Cuesta, abbiamo rivolto alcune domande:

Quali sono le maggiori difficoltà che incontrate nell’attuazione dei programmi che il Centro persegue?

Il problema principale è culturale: non riusciamo a incidere sul territorio nazionale come vorremmo, per le resistenze che incontriamo da parte delle comunità interessate; soprattutto gli indios andini, in particolare le etnie dei Salasacas y Chibuleos, che vivono sulle pendici dei vulcano Tungurahua, e i pueblos del Chimborazo (il vulcano più alto al mondo, nda), i quali oltretutto parlano quasi solo quichua (la lingua originale andina), non accettano ingerenze dal governo centrale, rivendicando la loro autonomia e tradizioni. Sulla costa, gli afro-ecuadoriani di Esmeraldas, cosi come gli indios Chachi, che hanno un loro governatore autonomo (detto Uni) si sono totalmente estraniati dalle attività nazionali, complice anche, nel caso dei neri, l’ostilità con cui sono viste le iniziative dei bianchi i quali, spesso e volentieri, li bollano come monos (scimmie), per cui, tra povertà, machismo e razzismo, ne deriva un brodo infernale, che avvelena, prima di tutti, donne e bambini.

Ci sono difficoltà legate al budget di spesa?

Grazie ai proventi del petrolio, che per l’80% sono destinati alle scuole e alla sanità, così come al welfare sociale, per ora i soldi non sono il problema principale da risolvere.

Oltre ai punti chiave del programma, quali sono gli altri compiti del centro?

Queste donne hanno disperato bisogno di un lavoro, che restituisca loro la dignità e l’indipendenza economica, per potersi emancipare dai propri persecutori; oltre a un domicilio segreto, fuori dalla portata delle loro famiglie. Sono i nostri compiti principali, delegati agli assistenti sociali.

Qual è il punto attuale della lotta contro il traffico di esseri umani e la prostituzione minorile?

I racket colombiani che introducono, attraverso i varchi della frontiera Nord, prostitute minorenni, infiltrando anche i rifugiati che risiedono in Ecuador, sono oggi il nemico numero 1 da affrontare. Ci sono circa 250.000 profughi colombiani nel Paese, la maggioranza di questi non ha uno stato legale, e di conseguenza un lavoro fisso. Questo comporta le difficoltà all’accesso scolastico duraturo per i loro figli e ai servizi sanitari. Istruzione e sanità sono gratuite in Ecuador; inoltre è permesso ai visitatori di risiedere sei mesi senza bisogno di un visto, ma dopo questo periodo, chi non ha un lavoro e un domicilio stabile, deve essere rimpatriato. I trafficanti umani e i caporali del lavoro nero, cercano di approfittare di questa situazione, per reclutare donne, i primi, e braccianti, i secondi, con compensi irrisori. E’ nostro compito, aiutare le donne cadute in tale rete, a ottenere un permesso di lavoro, un impiego, e un domicilio per sfuggire ai propri aguzzini.

p.s. – A supporto dei rifugiati colombiani, è doveroso citare l’Ong AAE (Asylum Access Ecuador) che mette a disposizione gratuitamente un team di avvocati, ai fini di ottenere uno stato legale per i propri assistiti, oltre a perseguire penalmente i trafficanti umani, locali e stranieri, nelle sedi opportune del Paese.