Alfio Mosca è un personaggio secondario de I Malavoglia, l’unico che comunica una qualità di dolore lieve, modulata su un’accettazione quasi stoica della realtà. È un uomo quieto, lavoratore, innamorato corrisposto di Mena, che però non sposerà. Alfio ha un doppio, il suo asino, che è con lui in ogni pagina: un gran lavoratore, che trasporta quattro quintali meglio di un mulo e sbocconcella ortiche per la via. «Mena l’accarezzava colla mano, la povera bestia, ed Alfio sorrideva come se gliele facessero a lui quelle carezze». Alfio se ne va da Aci Trezza quando gli eventi lo costringono; vi ritorna tempo dopo, più o meno nelle stesse condizioni in cui è partito, e già è tanto nell’universo di catastrofi umane e naturali che sferzano le pagine, ma torna su un mulo, dell’asino non si sa più nulla, è schiantato forse per la fatica.
Questo è il primo paradigma nei riguardi dell’asino: dipendenza, docilità e sopportazione estrema. Il secondo paradigma, anch’esso poco lusinghiero, è quello dell’ignoranza, della testardaggine, della stolidità, ed è racchiuso e risuona nei suoi nomi: asino, somaro. Eppure, come per tutti i paradigmi ci sono deviazioni, eccezioni, a volte rovesciamenti.

DUE LIBRI, entrambi intitolati L’asino, tradotti in italiano e stampati negli ultimi due anni, ne danno conto in modo diverso ma complementare. Entrambi sono piccoli, agili ma approfonditi, con belle illustrazioni e un’ottima bibliografia. Il primo, scritto da Jill Bough, pubblicato qualche mese addietro (già apparso in inglese nel 2011) fa parte della collana «Animalìa» della casa editrice Nottetempo (pp. 256, euro 18, traduzione di Andrea Aureli), una collana che, secondo le parole del direttore Andrea Gessner, deve essere «scientifica, ma non troppo approfondita; culturale, ma divulgativa», con monografie di «animali che già hanno una familiarità con noi, perlomeno nel nostro immaginario». Il secondo, di Jutta Person, edito a Berlino nel 2013, è appena stato pubblicato da Marsilio (pp. 158, euro 15, traduzione di Angela Ricci, prefazione di Paolo Isotta). Anche questo fa parte di una collana, «Storie Naturali», non limitata ad animali ma che include anche i corpi celesti.
I due volumetti ripercorrono la storia della domesticazione dell’asino (manco a dirlo precedente a quella del cavallo), descrivono le specie selvatiche che hanno dato origine all’asino domestico, le varie razze, (catalano, andaluso, del Poitou, Mammoth Jackstock: alla fine del libro di Person ci sono bellissime schede illustrate), il rapporto fin dall’inizio strettissimo con l’umano che ha visto in lui il servitore ideale, di poche pretese, di forza incredibile e di grande coraggio. E ragionando sul rapporto tra servitore e padrone, Person ipotizza che proprio questa strettissima vicinanza sia la ragione principale della grande ambivalenza, non solo simbolica, con cui si guarda a questo animale.

E allora l’asino è sì paziente, ma anche ostinato, testardo, semplice e pio ma anche empio, lussurioso, diabolico e così via per contrasti estremi come del resto un contrasto estremo è tra le due note del suo inquietante raglio: quelle due note così dissonanti che, a quanto racconta Plutarco, gli egizi aborrivano. L’essere capace di mangiare «li cardi e le lettuche» ne ha fatto per Giordano Bruno l’esempio perfetto del vero sapiente che, a differenza del pedante, sa accettare la legge del mutamento, avendo imparato la dura arte di «attraversare i contrari», secondo l’espressione di Nuccio Ordine (La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno, ripubblicato nel 2017 da La Nave di Teseo).
Nel saggio di Jill Bough i due capitoli centrali raccontano vicende poco note (e penose, per lo più): gli asini e i muli che colonizzano le Americhe, l’Australia e il Sudafrica, nel senso che senza di loro, senza il loro massacrante lavoro, semplicemente, la colonizzazione non sarebbe avvenuta o avrebbe avuto altri tempi e altri modi; e gli asini e i muli in guerra, con episodi di sfruttamento inaudito ma anche di simbiosi commovente.

ENTRAMBE LE AUTRICI ripercorrono la letteratura (non manca il rimando all’Asino d’oro di Apuleio, ma anche al Sogno di una notte di mezza estate: stesso tema, la metamorfosi), l’illustrazione, l’arte (nel libro di Bough compare il più bell’asino di sempre, quello del San Francesco «Frick» di Giovanni Bellini, con le sue lunghe orecchie in ascolto, perfetto doppio, anche lui, del suo padrone).
Ma in una cosa i libri si somigliano tanto da essere quasi sovrapponibili: l’evidentissima antipatia per il cavallo. Un’antipatia che accomuna un po’ tutti coloro che si sentono «asinini» e che ha un portato non zoologico, ma psicologico, caratteriale. Essi sanno perfettamente che il cavallo ha nuociuto con le sue sbandierate prodezze e per la preferenza accordatagli da potenti (guerrafondai e vanagloriosi) alla considerazione delle virtù dell’asino che – obiettivamente – sono di gran lunga più numerose.