Spaesato, con i capannoni vuoti e la testa piena di dubbi, sempre meno «locomotiva» perché perfino l’economia del cemento annaspa nel binario morto, un angolo che sopravvive inseguendo il mito della Serenissima che ormai è già virato nell’autonomia di Zaia. Lo specchio del Nord Est si riflette bene nel «puzzle» di storie vere, ironiche e sintomatiche che Massimo Carlotto ha cucito insieme a Loris Contarini. Grazie alla colonna sonora di Rachele Colombo, musicista a tutto tondo e voce «folk» senza latitudini, e di Paolo Valentini (che regala atmosfere non solo tecnicamente ineccepibili) Lost in Veneto – questo il titolo dello spettacolo prodotto dall’associazione culturale Amistad – si fa strada come la miglior cronaca della bussola impazzita in questa periferia d’Italia.

È il teatro delle parole che scavano meglio dei caterpillar o dell’alta definizione al plasma. Una parabola del Veneto senza più identità, incarnata dall’Amleto che Luigi Meneghello ha tradotto nella lingua di Ruzante e nella maschera di Sartori. Ma è anche la trincea scavata dal poeta Andrea Zanzotto nell’ostinata difesa della bellezza di un territorio sacrificato sull’altare delle lobby (dal Mose alle autostrade, fino al paradosso del Prosecco come industria… chimica).

In mezzo al guano del Duemila, invece, tocca a Contarini cucire metamorfosi, indossare personaggi, stirare notizie. Lost in Veneto proprio come nel film di Sofia Coppola (Lost in traslation) prova a tradurre lo scarto irriducibile fra il vecchio copione del «modello di sviluppo» e il nuovo deserto che circonda il campo profughi di Conetta quanto la Venezia da cartolina formato Grandi Navi. Prima ancora che spettacolo potente, si tratta di una vera e propria «lezione» che andrebbe ospitata davvero nelle aule delle Università venete.

Lost in Veneto illumina a giorno la terra delle imprese fai-da-te, l’antropologia di un «indipendentismo» arato nelle nebbie, il ridicolo senso di comunità formato centro commerciale. E narra senza mai annacquare la memoria, descrive meglio della casta grandi firme, scherza perfino sulle velleità di uno «stato» schizofrenico. Insomma, rappresenta forse il miglior saggio dell’attuale smarrimento che attanaglia Legaland sprovvista di orizzonti alternativi.

Contarini, Colombo e Valentini regalano almeno un riflesso di luce: spietato, ironico, stupefacente e armonico. La forza del teatro restituisce il nitore della scrittura e il potere della canzone popolare. In definitiva, un’opera… da tre soldi che riscalda il cuore. Si applaude convinti, soprattutto per sentirsi finalmente meno soli.