Il caso vuole che a inaugurare la stagione del Teatro di San Carlo a Napoli sia uno spettacolo di Willy Decker, regista che con un famoso allestimento della Traviata segnò 15 anni fa al Festival di Salisburgo la definitiva consacrazione internazionale di Anna Netrebko, trionfatrice della Tosca scaligera di questi giorni.

CON PASSO ancor più ineluttabile di quello spettacolo verdiano al calor bianco, La dama di picche di Cajkovskij immaginata dal regista tedesco si è presentata al pubblico napoletano come una cavalcata a precipizio verso il suo finale di totale dissipazione. Nato alcuni anni fa per l’Opera di Amburgo con scene e costumi di Wolfgang Gussmann e ripreso a Napoli dal regista Stefan Heinrichs, collaboratore di Decker, lo spettacolo si struttura su un impianto in apparenza a scena fissa ma in realtà in continuo movimento: un cupo labirinto che si apre, si chiude e ricombina in sale da ballo e da gioco, gallerie, anditi, tutti bagnati del medesimo nero in cui più che trovarsi i personaggi si perdono, amplificando il sentimento di paura che domina nel libretto di Modest Cajkovskij desunto dal racconto di Puskin. Sul piano drammaturgico il punto di fuga unico obbliga Decker a far piazza pulita di quanto intralcia il correre degli eventi verso l’epilogo di morte, destino comune per la Contessa, per Liza e infine per Hermann.

L’OSSESSIONE per il gioco, che nasconde il tormentoso desiderio di affermazione di Hermann, fallito e emarginato in un mondo di aristocratici e militari, pervade l’intera vicenda, spingendosi anche oltre le intenzioni del compositore: via dunque l’iniziale scena con i bambini, l’omaggio a Carmen, via l’intera pantomima di gusto mozartiano, tagliato persino il brillante inciso della governante con Liza e Polina, tutta la vicenda si asciuga e converge verso il volto della venere di Mosca, l’antica bellezza della contessa, di cui non rimane che il fantasma di un vecchio corpo agghindato con vesti sontuose, mosso dall’abitudine al comando imperioso, ma roso nell’intimo dall’angoscia della morte e dalla nostalgia di un passato dorato. Da subito la contessa diventa l’ossessione di Hermann, che desidera conoscere il segreto misterioso delle tre carte vincenti molto più di quanto non sogni una vita normale, di felicità accanto a Liza.

La paura dell’uno si muta e si specchia dell’angoscia dell’altra e incatena le solitudini tragiche di Hermann, della Contessa e di Liza, trascinando sullo sfondo gli altri personaggi. Alla guida dei complessi napoletani Jurai Valcuha sembra condividere solo in parte il tratto così marcato conferito dalla regia, attento com’è a stemperare in oasi malinconiche e dolenti i momenti solistici di Liza, l’appassionata Anna Nechaeva, le parentesi giocose fra ragazze con l’affettuosa Polina di Aigul Akhmetshina e la sognante, vana dichiarazione del principe Eleckij, il rassegnato Maksim Aniskin.

UNA DIREZIONE intrisa di malinconia, che accarezza con attenzione le voci e vale a bilanciare con grande cura il ritmo impresso dalla regia. Sempre in tensione, la vocalità di Hermann beneficia del timbro di Misha Didyk soltanto episodicamente, nei passaggi più distesi, mentre la statura sia fisica che vocale di Julia Gersteza conferisce all’orrifica figura della contessa una forza e un carattere di un grande personaggio gotico. Buona la prestazione del resto del cast e del coro, in un vorticare di carte, che dalle mani dei giocatori rimbalzano sui costumi della festa e nel taglio del ritratto della contessa, vera icona dello spettacolo.