Lo schema narrativo di partenza è semplice: una giovane donna viene rinchiusa contro la sua volontà in manicomio. Ha chiesto aiuto per l’ansia che la perseguita dopo una terribile esperienza di stalking, l’uomo che la voleva «sua» continua a apparirgli nonostante lei abbia cambiato città, casa, lavoro. La sua vita è paralizzata dal terrore, non riesce a avere più una relazione, ogni figura maschile rappresenta una minaccia. Il medico del centro specializzato a cui si è rivolta, l’Highland Creek Behavioral Center le chiede di firmare delle carte: una formalità.

Ma dopo poco la ragazza si trova spogliata di tutto, telefono, documenti, abiti in uno stanzone con altri fuori di testa: bicchierino con pillole, camicia di forza, iniezioni che stordiscono, medici e infermieri che sembrano nascondere qualcosa ma soprattutto tra loro lui, il suo molestatore…
Tra Kafka e il fulleriano Shock CorridorUnsane il nuovo film di Steven Soderbergh (era fuori concorso alla scorsa Berlinale) è costruito su una scommessa a partire dal mezzo con cui è stato realizzato, un iPhone 7 Plus: rendere la tensione, l’angoscia, la follia cinema senza ricorrere a una linea narrativa che non sia quella (o quasi) dell’ossessione della protagonista. Siamo nella testa di Sawyer Valentine (magnifica Claire Foy) un succedersi di stanze, corridoi, porte che si aprono e si chiudono, scantinati, distorsioni omicide. Dentro/fuori, fuori/dentro, lungo le linee dell’angoscia che si proiettano nella soggettiva della follia. Però: e se non fosse così? E se Sawyer fosse davvero prigioniera di un complotto?

«Per uno come me questa è un’epoca eccezionale per fare film: la distanza fra un’idea e la sua messa in pratica si sta assottigliando sempre di più, e quindi ci sono tantissime cose nuove da sperimentare. Girare con l’iPhone mi consentiva per esempio di posizionare l’obiettivo ovunque volessi in pochissimi secondi, senza dover appendere la macchina da presa al soffitto, fare buchi nel muro e così via: ora sarà strano tornare a lavorare in modo più tradizionale» ha detto Soderbergh che ha cominciato a lavorare a Unsane durante la postproduzione di La truffa dei Logan, due film in apparenza molto diversi con in comune però quel ricorrente desiderio che attraversa la sua opera (e le sue continue sperimentazioni) di mettere alla prova i possibili «effetti collaterali» dell’immaginario.

Stratificato nei significati e nelle inquietudini che mette in campo, Unsane è attraversato dal sentimento di una paura assoluta e insieme dai contorni opachi, lo stesso che permea i nostri tempi in cui le persone più fragili, più esposte ai ricatti sociali sono in pericolo costante, costrette a un equilibrio precario, mentre in nome dalla «sicurezza» si cancellano i diritti.
Siamo davanti a sorta di specchio che capovolge o riflette secondo come vogliamo guardalo: possiamo scoprire un significato o un altro, decidere un punto di visto, lasciarsi sorprendere da una ambiguità, dall’oscillazione del vero-falso (la linea (cinematografica è un po’ quella di Effetti collaterali).

Nella domanda «cosa stiamo guardando» che pone a noi spettatori Unsane è un film politico e non solo perché uno dei pazienti che dividono la sorte con Sawyer ci illustra con lucidità impeccabile il sistema sanitario Usa che rinchiude le persone – attenzione a firmare carte senza leggere anche i codicilli invisibili – per arricchire le assicurazioni. O perché si può riportare (ovvio che lo ha girato prima) al movimento #Me Too la rappresentazione della violenza maschile in varie gamme, dallo stalking alla subdola molestia del capoufficio verso la neoassunta giovane e carina in una società che compatta preferisce ignorare e rinchiudere la molestata.

È soprattutto una questione di forma che al soggetto (o ai soggetti) attuali da un’immagine «aperta» che ne restituisce il senso profondo e ciò che ci riguarda giocando col cinema, le sue tecnologie, i suoi modi del racconto.
Eppure questa stessa immagine è implacabile: nulla sfugge, ognuno è tracciato/tracciabile,un dato che l’iphone, uno degli strumenti con cui si moltiplica quotidianamente la realtà di ciascuno, esalta. Ma è proprio in questo confine labile di ripetizioni e traumi che il regista sperimenta le sue geometrie, la sua sfida alla rappresentazione – e al racconto – in bilico, dunque vero.