In un ideale «double bill» starebbero benissimo assieme: Tommaso, l’autofinzione della vita romana oggi di Abel Ferrara e famiglia, compagna e figlia, con Siberia presentato ieri in concorso alla Berlinale. E non solo perché l’alter ego del regista è in entrambi Willem Dafoe, attore sempre più essenziale, o perché la relazione di complicità tra i due è parte anch’essa della storia – nessun altro potrebbe «divenire» Ferrara allo stesso modo, senza mimesi – anzi contro di essa – ma immergendosi nella profondità della sua scrittura. Ciò che unisce i due film è soprattutto il lavoro sul tempo interiore, che è quello cinematografico, di un «prima» e di un «dopo» nella vita del regista in forma costante di ricerca dentro al proprio fare cinema. E se Tommaso è la quotidianetà, Siberia va verso l’astrazione di un universale umano.

C’ È UN UOMO in un bar remoto nel mezzo delle nevi, e c’è il suo doppio che solo lui vede (Dafoe), gli unici occhi altrui che incrocia e che lo osservano sono quelli azzurro ghiaccio dei suoi cani da slitta. Le poche presenze che appaiono nel suo orizzonte, parlano lingue incomprensibili ma lui sorride mentre li ascolta. Sono reali? Sono visioni? Un pescatore, una giovane donna incinta insieme a una donna anziana. La sensualità di una notte con lei cede a un mattino livido di sangue e di orrore: l’uomo parte, quale sarà la meta? Siberia è un viaggio, un on the road,del «genere» dilata la forma emozionale, l’idea di spostarsi non verso una direzione precisa ma per il movimento in sé, nella ricerca di risposte, di un senso al proprio essere al mondo, alla propria arte – più che al paesaggio degli easy riders nell’America degli anni 70, ricorda le immagini VR di Laurie Anderson in Aloft (un viaggio introspettivo) si precipita verso un fondo per risalire – da quale profondità non è dato saperlo.

Clint attraversa il pianeta, forse senza mai spostarsi, dalle nevi ai deserti ai giardini quasi dell’Eden, nella sua mente si affollano i ricordi, il padre, un bimbo – sé stesso? – l’album di famiglia, la madre, i sensi di colpa per non esserci stato quando lei moriva, l’ex moglie, una bambina … È ancora lui o è divenuto suo padre? L’eremo nei ghiacci, il suo rifugio è distrutto, rimane il mistero di una lingua, il mistero degli esseri, del cosmo. È questo che accade nell’inconscio dell’artista, nella sua creazione? O è forse la sua ricerca intima di risposte?

MA SE L’IDEA della seduta di psicanalisi – la sceneggiatura è dello stesso Ferrara insieme a Christ Zois – può essere un punto di partenza, quello che il regista fa, e più di ogni altra volta, in modo totale, impudico, sfacciato è denudarsi mettendo alla prova le sue immagini la forma, l’invenzione, il dispositivo, la loro potenziale follia. Da qui la dimensione autobiografica conquista quella sua distanza, si fa specchio di archetipi,di miti, è privato e politico, attraversa il caos del mondo e quello del cuore: come si possono tenere insieme? E soprattutto: come possono diventare immaginario?

TRA VISIONI e epifanie dolorose, Ferrara assume il rischio del suo desiderio, si lancia nel vuoto come il suo personaggio, mostra questo maschile – che suo è sempre il punto di vista – nella violenza dell’umanità, tra lo sfregio delle guerre quotidiane e della storia, la dolcezza del rimpianto e le ossessioni verso il femminile: il seno, il ventre, una Madonna. Lo aveva già fatto in Black Out – uno dei suoi film più belli – seppure in chiave tutta diversa, ma era un altro momento della vita, dunque del cinema., qui l’astrazione è moltiplicata, la realtà si deforma, e insieme tutto è così riconoscibile e reale, questa ossessione di mettere alla prova il proprio fare supera gli inciampi, l’eccesso, gli assoluti. Siberia è un gesto che irrompe nella contemporaneità per resistervi, per ricordare che il cinema è lo spazio dell’invenzione.