Nina G. Jablonski ha scritto un libro antidoto, l’ennesimo ma è il suo primo tradotto in italiano: Colore vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle (Bollati Boringhieri, pp. 320, euro 25, traduzione di Alberto Agliotti) è un testo del presente come non mai.

UN LIBRO che entra dentro le dinamiche mondiali in essere – appena scalfite da una pandemia sanitaria che per qualche tempo ha rimosso l’emergenza razzista globale – dandone una spiegazione scientifica che, grazie ai numerosi esempi che ricadano sulla quotidianità, fornisce un ampio bagaglio culturale alla portata di chiunque abbia la voglia, e il coraggio visti i tempi correnti, di porsi nella trincea della resistenza al sempre vecchio e sempre nuovo razzismo.
Sfogliando il libro di Jablonski si ha la sensazione di avere in mano un manuale per la sopravvivenza in un ambiente vasto e ignorante, utile in quei momenti conviviali, e non, dove il politicamente scorretto, il vagamente razzista, è diventato un sottofondo sul quale è più semplice tessere rapporti, fare una risata a buon prezzo così una inquietante fiducia nell’altro.
Considerata come la massima esperta mondiale della pelle, apprezzata per le sue qualità di divulgatrice anche non accademica – imperdibili le sue lezioni spettacolo presenti in rete – Nina Jablonski, docente di antropologia presso la Pennsylvania State University, per oltre trecento pagine descrive e spiega le ossessioni di un mondo nato solo recentemente, il mondo fondato sulla differenza cromatica dell’involucro umano.

LA PRIMA PARTE affronta il piano biologico, ovvero la dura realtà materiale da cui prende piede il lungo percorso del razzismo. Il «colpevole», si scopre nelle prime pagine, come in un libro giallo al contrario: una miscellanea tra raggi solari, in particolare gli Uva e gli Uvb, inclinazione terrestre, difese biologiche evolutive e allargamento delle reti di produzione e consumo. Da qui ecco il dipanarsi di un meandro di interazioni biologiche, economiche e social che dà vita a una rete di rimandi spesso illuminanti.
L’origine è scontata: eravamo tutti neri, o quanto meno scuri, grazie alla melanina, condizione che ci mette in stretta relazione con molti funghi: il libro non manca di molteplici spunti tanto profondi quanto, a volte, grotteschi, che hanno il pregio di alleggerire senza banalizzare.

SORPRENDENTE anche l’ampio lato storico, tra gli innumerevoli spunti da segnalare la de-umanizzazione degli africani attraverso l’immaginario culturale, nonché l’ampio approfondimento dedicato alla legittimazione scientifica della discriminazione. Lo sparpagliamento della razza umana sui quattro continenti, in zone terrestri dove i raggi del sole giungevano scarsi, o con una inclinazione diversa, ha portato alla gemmazione dei successivi colori della pelle.
Ma l’origine, appunto, è unica. Unica e intelligente: la natura, spiega chiaramente Nina Jabblonsky, è totalmente disinteressata e probabilmente osserva con disprezzo le sovrastrutture sociali che l’essere umano si è inventato negli ultimi secoli. Perché, e qui si entra nella avvincente seconda parte del libro, le nostre ossessioni cromatiche sono abbastanza giovani, ma vivono un’accelerazione direttamente collegata alla società dei consumi.

Non a caso Colore vivo, nelle pagine finali dà ampio spazio al fenomeno, relativamente recente, dello sbiancamento della pelle, indotto a fomentato da modelli consumistici più o meno espliciti.
Al termine della lettura, non rimane che sposare la teoria di fondo di Jablonski: solo una conoscenza approfondita delle cause biologiche della pigmentazione può essere sfruttata per demolire meccanismi sociali ed economici che appaiono sempre più forti nella loro follia.