Debora Serracchiani, governatrice del Friuli Venezia Giulia ed esponente di primo piano del Partito democratico, ha sostenuto che la violenza sessuale è odiosa sempre, ma risulta socialmente e moralmente più inaccettabile se è compiuta da chi ha chiesto e ottenuto accoglienza nel nostro paese.

Si è difesa dalle critiche affermando di aver detto «una cosa evidente agli italiani». Le sue dichiarazioni riproducono in effetti ciò che appare evidente ai più e lo fomentano anche. I politici che si vorrebbero democratici, dovrebbero evitare di fomentare l’«evidenza»: quest’accortezza è un requisito minimo per poter assolvere la loro funzione.

In generale si soffre di più se si subisce un danno da chi è stato accolto in casa propria. Al danno subìto si aggiunge il dolore del tradimento: la sofferenza congiunta per l’oggetto perduto dell’amicizia/ scambio di doni e la ferita dell’amor proprio per essere stati raggirati.

Il tradimento, tuttavia, è periferico nel nostro rapporto con i «migranti». Subiamo molti più danni inaspettati da membri della nostra famiglia, partner e amici che dai diseredati esiliati, nostri ospiti non invitati.
La violenza domestica resta la forma principale di mortificazione sessuale e affettiva delle donne, ma sarebbe vano aspettare che Serracchiani, prigioniera dell’evidenza dei più, la trovi più deprecabile delle aggressioni sessuali ad opera di ospiti ingrati.

La cosa che crea evidenza, nel senso di una diffusa credenza che è sentita come ovvia verità, è il bisogno di spostare sui senzatetto che bussano alla nostra porta la crescente diffidenza che si è impadronita delle nostre relazioni d’intimità.

La paura perturbante dell’estraneità che infiltra i legami che ci sono familiari è silenziata con il suo travestimento in censura morale dello straniero non meritevole della nostra ospitalità.

Il silenzio non cancella l’effetto perturbante, lo trasforma in uno svuotamento esistenziale, il terremoto futuro che ci seppellirà. La civilizzazione, umanizzazione del mondo in cui viviamo sta nello stabilire con l’estraneo rapporti di prossimità e di scambio, che lo rendono familiare. Stiamo riuscendo nell’impresa contraria: a farci diventare estranea la familiarità.

L’etichetta di ospite ingrato applicata ai migranti, per dare sfogo a sentimenti di rigetto che non si addicono ai cittadini politicamente corretti, è, come tutte le scuse strumentali, un’autorizzazione alla slealtà.

L’ipocrisia presta sempre soccorso agli atteggiamenti sleali. La nostra relazione con i migranti, in termini di carità o di sfruttamento, è di fatto ineguale, mette i soggetti ospitati in condizione di inferiorità. Non è fondata sul desiderio che, rendendo i contraenti paritari, priva di senso l’ospitalità unilaterale.

Rispettare veramente la casa dell’altro è prendere cura dell’oggetto desiderato, all’interno di una reciprocità nella capacità di donare. Il rispetto ha un senso diverso quando l’ospitalità è una concessione al bisognoso secondo regole riflettenti il maggior potere di chi ha meno bisogno.

Non si può attribuire un valore etico a comportamenti corretti indotti da uno stato di necessità. Simmetricamente, non si può attribuire un maggior disvalore a comportamenti violenti che non riconoscono l’obbligo di essere prudenti e ignorano il giudizio di opportunità.

I nostri rapporti con i migranti sono autenticamente civili, umani dove li incontriamo sul piano del desiderio. Questo è l’unico luogo in cui i limiti delle reciproche azioni possono essere stabiliti eticamente. Qui non fa differenza l’essere indigeni o stranieri. La violazione del desiderio è un’infrazione etica grave, chiunque la compia.