Se non ci fossero poveri non ci sarebbero santi . Chi borbotta questa frase lo sa bene visto che è un prete anche se come gli altri che con lui dividono il ritiro nel paesino sperduto di pescatori, governati da una suora premurosa, non esercita più. La chiesa li ha tutti allontanati per un qualche delitto da espiare ma anche da tenere nascosto. Sembrano una famiglia o una strana comune, isolati dal mondo passano le giornate in casa, nell’orto o sulla spiaggia dove allenano, uno in particolare, un cane levriero più veloce di tutti gli altri su cui ripongono la speranza di vincere la corsa regionale.

Il loro rituale quotidiano si ferma però quando arriva un nuovo prete che dopo poco si spara un colpo in testa devastato dalle urla di un giovane vagabondo che lo accusa di violenze, di averlo costretto a fare sesso con lui, a ingoiare il suo sperma «santo» , a rapporti anali devastandolo per sempre.
Rispetto al suo ultimo No, narrativamente più morbido pure se accordato al racconto della dittatura di Pinochet e ai suoi delitti rimasti senza giustizia – tema che attraversa tutti i suoi film, una trilogia definisce Larrain No insieme a Tony Manero e a Post Mortem – in El club il regista sembra ritrovare quella sgradevolezza disturbante che dominava la cifra dei precedenti. Senza eroi e senza graziare nessuno, tantomeno lo spettatore come quasi sempre (No era appunto un’eccezione) in una poetica che alla violenza narrativa fa coincidere una forma cinematografica altrettanto violenta. E dagli applausi alla proiezione stampa se Guzman è già tra i favoriti per l’Orso d’oro nella classifica di stellette della rivista specializzata Screen, Larrain vi si aggiungerà di certo.

Cosa è Il club del titolo? Chi sono quegli uomini e quella donna che lo abitano? Uno ha rimosso il passato nella demenza dell’età, degli altri lo scopriamo ascoltando le conversazioni col giovane inviato dalla chiesa per chiudere la loro casa. Vogliono un rinnovamento, il ragazzo è un gesuita (come Papa Francesco) impone nuove regole, allontana il cane, getta via l’alcol, quella non è una spa ricreativa e loro non possono rimuovere le ragioni che li ha condotti lì.
Omosessualità, difesa dei poveri, la conoscenza dei crimini militari (uno era cappellano). Ma lui che è borghese, gli rinfaccia il prete dei poveri cosa ne sa di chi vive senza soldi e a 17 anni si trova con un figlio destinato alla spazzatura. Per questo li aiutava a darli clandestinamente in adozione alle famiglie ricche, almeno anche nei quartieri bene di Santiago ci sono bambini neri. Non sa neppure del desiderio che si può controllare verso i ragazzini e che come gli spiega essere omosessuali non significa per forza essere pedofili.

La suora da parte sua aveva adottato una bambina africana però gliel’hanno tolta, dicevano che la picchiava, era la madre a calunniarla sostiene invece lei perché non sopportava africani in famiglia…Quel club è dunque la chiesa cattolica che i suoi conflitti e nodi oscuri li tiene tutti dentro senza nessuna fiducia nella giustizia (degli uomini). E la pedofilia – la cui sconfitta il papa ha dichiarato obiettivo prioritario – il nervo scoperto della storia anche se nella componente dei personaggi, ciò a cui alludono tra passato e presente, ritorna la dittatura di cui la chiesa è stata complice nelle alte sfere politiche, e avversaria tra i poveri con la teologia della liberazione e i suoi preti ammazzati. E poi lo scontro di classe, l’omosessualità, l’esercizio indiscriminato del potere. Difatti anche i ricchi giovani di Santiago che fanno surf in spiaggia i preti gay li odiano ricordando avances pericolose a scuola.

Se Bunuel è riferimento esplicito col suo Angelo sterminatore, quella che appare come la vittima predestinata, il folle barbone che si chiama Sandokan, qui ribalta il suo ruolo diventando al tempo stesso espiazione e aguzzino, un nuovo inferno di pillole, psicofarmaci e droghe per i membri del «club». La redenzione per quella «comunità», la sola possibile, è prendere in casa colui che volevano eliminare assorbendolo nel proprio spazio.
Ma forse anche così rimane impossibile. Perché coloro che per un momento avevamo pensato fossero stati richiusi come vittime della repressione – contro gli omosessuali, contro chi sa troppi segreti e nel «nuovo» Cile fa paura – si sono rivelati infatti a loro volta «mostruosi», pronti a usare le stesse armi dei persecutori, anche a costo di sacrificare chi amano, per mantenere il proprio stato.

L’ambiguità di Larrain nel cui universo non esistono buoni e cattivi produce slittamenti continui, e questo se da una parte afferma un punto di vista netto, dall’altra diventa nella sua compattezza un eccesso di programmaticità. Nessun personaggio è salvabile, perché tutti partecipano a un sistema, «vittima» compresa, che fagocitandosi mantiene se stesso. L’omertà non si rompe anche quando ti attaccano personalmente, anche quando la posta da pagare è alta, e a questo si piega anche il rinnovatore affermando così che il rinnovamento non è possibile. Tutto si quadra fino a soffocare, e non è questione di umanesimo (il cinema di Larrain ovviamente non lo è) però in questa totale assenza di crepe (conflitto?) infine depotenzia anche la politicità. Dove rimane lo spazio del conflitto in un universo così compiuto?