Impegnata in un corpo a corpo contro rating in declino (ai minimi storici quelli dell’anno scorso), obsolescenza e una profonda crisi di identità, l’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences ha intrapreso mercoledì l’ultima della lunga serie di catastrofiche iniziative/boomerang che hanno caratterizzato la corsa agli Oscar di quest’anno. Ancora -e pare definitivamente- senza conduttore a circa una settimana dal suo svolgersi (il 24 febbraio), la cerimonia dell’Oscar 2019 non includerà la premiazione in diretta di quattro categorie – direttore della fotografia, montatore, capelli/trucco e cortometraggio di fiction. La consegna di queste statuette avverrà infatti – secondo l’annuncio dell’Academy- durante le interruzioni pubblicitarie, per poi essere tagliata, assemblata e trasmessa in coda al resto dell’interminabile maratona tv. Non ci vuole un premio Oscar al montaggio per chiarire l’effetto anti-climax di questa soluzione, che relega i riconoscimenti ad alcune funzioni chiave del fare cinema (immagine, ritmo narrativo, artificio…) a una specie di postilla, da digerire presumibilmente quando uno sta già lavandosi i denti prima di andare a dormire.

SE JOHN BAILEY, stimato direttore della fotografia e presidente dell’Academy, contava sulla solidarietà della sua categoria per far passare l’ultima trovata intesa a tenere sotto le tre ore la durata della cerimonia, ha sbagliato di grosso.
Una lettera aperta firmata dai maggiori Dp hollywoodiani (Roger Deakins, Caleb Deschanel, Emmanuel Lubetzki, Ellen Kuras, Mauro Fiore, Janusz Kaminski, Vittorio Storaro, Bob Richardson, Rodrigo Prieto…) e da registi come Martin Scorsese, Quentin Tarantino, Spike Lee, Damien Chazelle, Spike Jonze e Ang Lee ha definito la scelta «nientedimeno che un insulto» e chiesto che l’Academy riconsiderasse la sua posizione. «Qual è il modo migliore di celebrare i meriti di un film se non quello di non onorare pubblicamente chi lo filma, letteralmente?» concludeva la lettera, citando un tweet di Seth Rogen, firmatario anche lui.

DOPO aver fatto retromarcia, l’estate scorsa, sull’istituzione di una grottesca nuova categoria per«il miglior film popolare», sulla scelta del presentatore (Kevin Hart, dimissionario dopo essere accusato di commenti anti-LBGQ) e sulla decisione (anche lì per questioni di tempo) di non includere nella cerimonia la performance live di tutte la canzoni nominate, ad eccezione di quelle interpretate da Kendrick Lamar (per Black Panther) e Lady Gaga (per A Star Is Born), l’Academy per ora tiene duro sul suo nuovo exploit, promettendo che la scelta delle categorie da sopprimere va a rotazione: saranno diverse quelle dell’anno prossimo.
L’aria di totale confusione, e semi-incompetenza, che ha dominato finora i preparativi per l’Academy Awards riflette il carattere «confusionario» di questo Oscar anche in un altro senso, forse più profondo. L’insolita nebulosità dei pronostici -specialmente per la statuetta più desiderata, quella di miglior film- riflette infatti non uno spettro di nominati così avvincente da rendere difficile la scelta, ma il fatto che quest’anno, come non mai, le logiche portanti del voto sembrano aver poco a vedere con i film. E invece molto a che vedere con l’essere pro o contro Netflix (il loro film è Roma); pro o contro la Disney, lo studio che ha appena inghiottito la Twentieth Century Fox e che corre agli Oscar con Black Panther; votare Afroamerican (Black Panther, BlacKKKlansman, Green Book); non votare per un film diretto da Bryan Singer (Bohemian Rhapsody) o da Peter Farrelly (Green Book). Ironia delle ironie: a condurre da dietro le quinte questo spettacolo increscioso c’è una generazione di ferratissimi e ferocissimi publicist cresciuti alla scuola di Harvey Weinstein.

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