Al di là dei titoli tutti già «annunciati» almeno nelle categorie principali, le nomination degli Oscar 2021 – la cui cerimonia si terrà il prossimo 25 aprile al Dolby Theatre di Los Angeles – rispecchiano fedelmente quanto è accaduto in questo anno di pandemia nel cinema mondiale portando a compimento una serie di premesse poste nel passato.
Purtroppo il magnifico Notturno di Gianfranco Rosi è fuori dalla cinquina dei documentari – entra però Massimo Cantini Parrini in quella per i migliori costumi con Pinocchio di Garrone – ma come sappiamo non sempre (forse quasi mai) i film che arrivano alla finale sono quelli di qualità e di interesse maggiori, anzi nel caso in particolare dei «documentari» si fanno strada titoli spesso formattati o che non interrogano il mondo né lo sguardo dello spettatore – in questa cinquina svetta Collective di Alexander Nanau (Hbo) anche nella categoria del film internazionale.

E A PROPOSITO: l’esclusione dalla corsa agli Oscar di The Dissident, il film sull’omicidio del giornalista saudita Kashoggi, ucciso a Istanbul nel consolato del suo Paese su ordine del principe saudita (che piace a Renzi) Mohammed bin Salman è vergognosa: altroché la melassa del politicamente corretto di cui Hollywood si ammanta negli ultimi anni. Al tempo stesso proprio questa assenza spiega benissimo il funzionamento dell’Academy: contano gli investimenti, il business, la potenza di chi sostiene un film o un altro, e prima ancora degli equilibri della «correttezza» quelli dell’economia.

Così i colossi dello streaming si portano a casa un grande numero di nomination tra quelle più importanti a cominciare da Netflix che solo con Mank di Fincher ne conquista dieci – tra cui film, regia, attore protagonista (Gary Oldman) delle 35 complessive. Sei quelle a The Trial of the Chicago 7 (Il processo ai Chicago 7) – tra cui film e sceneggiatura a Aaron Sorkin – e anche a The Sound of Metal (Amazon Studios) – con il migliore attore a Riz Ahmed.

Nomadland di Chloe Zhao ottiene sei nomination – tra cui regia, film, montaggio (della stessa Zhao), fotografia e migliore attrice protagonista, la stupenda Frances McDormand – in sintonia col successo ai Golden Globes e in una linea al femminile che risponde (ma il film è bello e merita al di là di questo) alla politica di parità di gender – l’altra regista nominata è Emerald Fenner per l’esordio Promising Young Woman: un evento se si pensa appunto che nella storia quasi centenaria degli Oscar solo 7 sono state le registe nominate) –nella cinquina del film internazionale c’è il bel Quo vadis, Aida? di Jamila Zbanic.

QUELLO che in molti già definiscono «il trionfo delle piattaforme» – Nomadland è stato annunciato per il 30 aprile su Disney+ ma anche in sala laddove sarà possibile – è iniziato però ben prima del Covid con le statuette a Roma di Cuaròn. Cosa è cambiato da allora? Tutto. Intanto il cinema in sala è per ora scomparso, non si sa se, quando e come tornerà, ma soprattutto è cambiata radicalmente la politica dei colossi quali Netflix o Apple che ormai hanno in mano una parte considerevole di produzione «hollywoodiana». I due film super nominati, Mank e The Trial... non avevano prevista alcuna uscita in sala in Italia e nel resto d’Europa. E non per la pandemia ma perché questa era la strategia pianificata così come non presentarli ai festival cinematografici – ricordiamo un fugace passaggio al New York Film Festival di On the Rocks di Sofia Coppola ma online in quanto «mezzo» consono alla destinazione d’uso (a Venezia c’era Pieces of a Woman con Vanessa Kirby, Coppa Volpi e ora candidata come migliore attrice protagonista, comprato da Netflix e mandato anch’esso in streaming).

«ROMA» dopo la vittoria alla Mostra di Venezia era uscito in sala, adesso questo passaggio è un obiettivo per Netflix superfluo. I suoi film come ha annunciato andranno in piattaforma a ritmi sostenuti di più di uno alla settimana tanto da confondersi nell’orizzontalità indistinta della visione. Non è questione di essere nostalgici – anche se mi piace pensare che il prossimo underground sarà quello che «clandestinamente» proietta i propri lavori in sala – ma di guardare al rapporto tra mercato e prodotto che non è mai neutro. Lo ha spiegato con chiarezza Martin Scorsese nel suo saggio su Fellini pubblicato da «Harper’s Magazine» a partire da lui stesso che con Netflix ha realizzato The Irishman, e Pretend It’s a City, – mentre il prossimo Killers of the Flower Moon è in lavorazione per Apple Tv: l’immaginario si modifica secondo i mezzi produzione, nel caso secondo gli algoritmi che suggeriscono un «contenuto» a cui tutto può essere ridotto e riportato – del resto formalmente l’uso di primi piani in Mank o il bianco e nero patinato ci dicono che chi gira pensa a un’altra forma di visione perché su grande schermo sarebbero indigesti.

Questo è il punto (un po’ come gli investimenti sauditi). E se Hollywood e l’Academy non vi si confrontano chiedendosi cosa diventerà il cinema nell’immediato futuro nascondersi dietro alle «conquiste» di gender o delle «minoranze» appare ipocrita. E persino opportunista.