Un governo incendiario sul tema dei migranti e ortodosso sul versante economico (vuoi mettere i «dannati della terra» con «mercati»?). Al di là della propaganda, questa è la fotografia dell’esecutivo giallo-verde che compare a poche settimane dal suo insediamento. Due fatti a riprova: le recenti dichiarazioni del ministro Tria sul «quadro tendenziale» dei conti pubblici e le frizioni appena insorte tra gli alleati sul cosiddetto «decreto dignità».

Nel Def varato dal governo Gentiloni c’è scritto che, a legislazione invariata, il deficit pubblico dovrebbe attestarsi all’1,6% del Pil quest’anno, per poi scendere allo 0,8% l’anno prossimo (pareggio di bilancio nel 2020). Qual è il giudizio del ministro dell’economia? Eccolo: «Si tratta di un’evoluzione che è bene non mettere a repentaglio, perché il consolidamento di bilancio è condizione necessaria per mantenere la fiducia dei mercati finanziari».
A maggior ragione se si considera che l’economia è data in fase di rallentamento e le stesse stime del governo sulla crescita dovranno essere riviste al ribasso (dall’1,5% del 2017 si passerebbe ad un 1,3% quest’anno, fino a 1,1% l’anno prossimo), come ha ricordato, da ultimo, il Centro studi di Confindustria.

Archiviata la guerra ai «vincoli criminali» dell’Unione europea, siamo, in sostanza, alla continuità con i governi tecnici e a guida Pd. E come Renzi e Gentiloni, anche il nuovo esecutivo, tutt’al più, proverà nei prossimi giorni a chiedere da Bruxelles «margini di flessibilità» in vista della prossima legge di stabilità (si parla di uno 0,5% di deficit sul Pil), se non altro per disinnescare la bomba delle «clausole di salvaguardia» (aumento automatico dell’Iva e di altre accise), che, da sola, vale dodici miliardi e mezzo di euro.

Richiesta, tuttavia, su cui già pesa il monito della Bce: «La discrezionalità adottata nell’accordare una riduzione dei requisiti di aggiustamento a due paesi nel 2018, riflette un’applicazione del patto di stabilità a scapito della trasparenza, coerenza e prevedibilità dell’intero quadro di riferimento». I «due paesi» sono l’Italia e la Slovenia.

Per il nostro Paese, invero, nell’ultimo «Bollettino economico» di Eurotower c’è anche un altro avvertimento, relativo al sistema previdenziale: «Altissimi rischi da una riforma della legge Fornero». Anche qui: prevarrà il rispetto degli impegni europei o il «contratto di governo»?

In ogni caso, per chi coltivasse ancora illusioni sull’ispirazione «keynesiana» di questo governo, sulla sua «vocazione sociale», valgano, a riprova del contrario, anche le decisioni che lo stesso si appresterebbe ad assumere in materia fiscale, nonché i dubbi sul reddito di cittadinanza e l’insofferenza per alcuni provvedimenti contenuti nel redigendo «decreto dignità» che provengono da una parte di esso.

In sintesi: la flat tax forse si farà (non per tutti, probabilmente), il reddito di cittadinanza potrà attendere (a meno che non sia un’altra cosa). Intanto, sale la tensione per le timide misure – non mettono in discussione i pilastri del Jobs Act, dalle tutele crescenti all’art.18 – sul precariato annunciate da Di Maio, che dovrebbero trovare spazio in un apposito decreto. Sia l’ala leghista della coalizione che le associazioni datoriali non nascondono il loro fastidio per la ventilata ipotesi di reintrodurre le «causali» per i contratti a tempo determinato, per il limite delle quattro proroghe e l’aumento dei costi contributivi per chi assume con contratti a termine (al momento, il decreto è slittato).

È una questione di classe e di voti (tra gli elettori della Lega tantissimi sono i piccoli e medi imprenditori), da cui dipende la sopravvivenza del governo. Per adesso, mettendo insieme taglio delle tasse ai ricchi (teoria del trickle-down, o «gocciolamento» dall’alto verso il basso), politiche dal lato dell’offerta (meno tasse alle imprese), rigore dei conti pubblici e timidezza dei programmi sociali (osteggiati da una parte dell’esecutivo), ne viene fuori un dato: il governo giallo-verde si muove nel quadro della teoria economica dominante, proprio quella che sta alla base dell’attuale governance europea.
Un paradosso, se si pensa che la sua nascita è stata messa a repentaglio dal timore che ci potessimo ritrovare, addirittura, fuori dall’euro.