«La pacchia è finita», cinguettano ogni due per tre i ministri del «cambiamento» sui vari social. Si tagliano le pensioni, si colpiscono i giornali come il nostro, si provano a diminuire i parlamentari ma per qualcuno la pacchia sembra non finire mai. Anzi, continua come e più di prima. Si tratta dei 307 concessionari che in Italia possono sfruttare e vendere come meglio credono l’acqua minerale, «oro blu» del XXI secolo.
Quello delle acque in bottiglia e dei soft drink è un business da 3 miliardi l’anno e lo stato, anzi le regioni, ci guadagnano appena 19 milioni di euro in tutto. Una vera miseria. Lo rivela un rapporto ufficiale sul Patrimonio della Pa pubblicato alla chetichella dal Ministero dell’Economia la sera del 27 dicembre, mentre nei Palazzi della politica ci si scannava sulla legge di bilancio.

IL RAPPORTO della Direzione VIII, Ufficio IV del Mef sulle concessioni delle acque minerali e termali aggiorna in tono burocratico uno scandalo conosciuto da anni: la svendita a pochi soliti noti di un bene prezioso e pubblico come l’acqua.

Sanpellegrino, Nepi, Guizza, Lete, Ferrarelle, Rocchetta, ma anche i vari marchi della Coca Cola company sono tutte «etichette» su una merce inodore e incolore, per cui gli italiani spendono fior di quattrini.

[do action=”citazione”]19.365.000 euro. Le concessioni per le acque minerali fruttano in tutto alle Regioni meno di 20 milioni l’anno (dato Mef). Mentre il fatturato del settore ammonta a 3 miliardi (dato Mineracqua 2017). Il peso delle concessioni è quindi irrisorio per le aziende: lo 0,63% del fatturato.[/do]

IL CONSUMO PROCAPITE di acqua minerale non conosce crisi: 224 litri l’anno a testa è il dato 2017 stimato da Mineracqua, l’associazione di categoria di Confindustria. Il 69% dei quali è «liscia, naturale», come sgorga dalla sorgente. Una sorgente che è nostra, di tutti, e affidata in concessione dalle regioni quasi sempre senza gara pubblica, a canoni irrisori e per durate spesso trentennali se non addirittura perpetue (è il caso ad esempio di una concessione Coca Cola in Basilicata). Ci sono regioni (ad esempio le Marche) dove l’ente locale non è in grado nemmeno di ipotizzare quanta acqua effettivamente venga prelevata dai concessionari. Mancano i contatori per misurarli né si fanno controlli a campione. Non a caso quasi sempre la concessione viene pagata in base alla superficie di sfruttamento e non alla quantità effettivamente estratta dal sottosuolo (accade ad esempio in Emilia Romagna, Liguria e Puglia).

UN SETTORE MOLTO redditizio, in cui 10 «big» (Sanpellegrino spa/Nestlè, gruppo San Benedetto, Fonti di Vinadio spa, Lete spa, Ferrarelle spa, gruppo Norda, Gruppo Cogedi, Spumador, Siami spa e Fonti del Vulture srl/Coca Cola) sfruttano il 68% dei 16,5 miliardi di litri di acqua minerale nazionale. Per ogni 200 euro incassati ne spendono appena 1 per la concessione, che è di fatto il vero core business dell’impresa. In 15 regioni, si badi bene, l’affidamento delle concessioni avviene esclusivamente attraverso una trattativa privata su richiesta di parte (l’uscente). Se non un unicum, quasi.

[do action=”citazione”]60.981 ettari. Sono 28.227 in Italia gli ettari concessi per lo sfruttamento delle acque minerali. Altri 32.754 ettari invece sono concessi per lo sfruttamento termale. Sommati insieme, si tratta del 2% del territorio nazionale (fonte Rapporto Mef 2016 pubblicato il 27 dicembre 2018)[/do]

La conferenza stato-regioni nel 2006 provò a stilare delle linee guida almeno facoltative, con prezzi fissati a 2,89 a metro cubo per l’acqua imbottigliata, 2,31 a metro cubo per quella emunta e 34,62 euro per ettaro affidato. A volte neanche questo importo di 0,02 centesimi a litro è stato accolto dagli enti locali concessionari, in un groviglio di conflitto di interessi e assenza di trasparenza degno delle big del petrolio in paesi esotici.

COSA INTENDA FARE di tutto questo il governo del cambiamento non è noto. Nel contratto Lega-M5S si parla del rispetto del referendum del 2011 e dell’investimento sulle reti idriche per le acque pubbliche. Non una parola sull’«oro blu». Eppure una delle 5 stelle del MoVimento grillino è l’acqua, e proprio sull’acqua si gioca la faccia chi se la prende con i soliti noti mentre tratta con i guanti di velluto giganti mondiali come Nestlè e Coca Cola.

Le concessioni per le acque minerali

Le acque minerali hanno caratteristiche particolari, diverse dalle acque «ordinarie». Dal punto di vista giuridico le prime appartengono al demanio minerario e sono considerate una «merce», le seconde al demanio idrico e sono considerate un «bene vitale» ad accesso universale. Questa «merce» acqua minerale è gestita dallo stato attraverso il sistema delle concessioni, che con la riforma costituzionale del 2001 sono state attribuite al sistema delle Regioni/province autonome. Ogni ente locale perciò legifera autonomamente. Ma, come vediamo a fianco e in pagina, i ricavi sono davvero irrisori.

Le concessioni per le acque termali

Più della metà delle acque termali italiane (il 55%) è concentrata in due regioni: il Veneto (bacino euganeo) e Campania (Ischia soprattutto). Le concessioni autorizzate dalle varie regioni sono in totale 504 e fruttano poco e niente, appena 1.899.406 euro. Ci sono perfino 10 concessioni perpetue (senza data di scadenza) stipulate negli anni ’30. Il settore termale è diviso in due parti: da un lato c’è l’aspetto delle cure vero e proprio, che è in tutto o in parte a carico del sistema sanitario, dall’altro c’è l’aspetto del benessere con l’indotto alberghiero, di wellness e di fitness. Il fatturato totale è stimato in 1,5 miliardi di euro.

[do action=”citazione”]16 mld. Un dato certo sull’acqua usata dai concessionari non esiste. Il Mef lo stima in 16,6 miliardi di litri. Mineracqua parla invece di 14 miliardi di litri imbottigliati (dati 2016)[/do]

Le regole le detta un «regio decreto»

Incredibilmente, il settore minerario di cui fanno parte le acque minerali è termali è ancora oggi regolato quasi interamente da un regio decreto del 1927, il numero 1443 del 27 luglio.
Da allora a oggi le cose sono cambiate molto poco, e quasi sempre solo per le direttive europee, che hanno imposto (ma senza riuscirci, vedi in pagina) una data di scadenza per le concessioni, la preferenza della gara per l’affidamento della concessione, un migliore utilizzo coordinato con lo Stato delle acque stesse.

Il pasticcio del «titolo V»

Come noto, nel 2001 il centrosinistra varò una riforma dell’art. 117 della Costituzione in cui le acque minerali non erano più materia concorrente tra stato e regioni ma affidate in via residuale a queste ultime. Lo stato, naturalmente, può intervenire solo per tutelare beni considerati superiori come l’ambiente, la salute, la concorrenza. Nel 2006, ad esempio, il decreto legislativo n. 152 ha cercato di ricondurre la gestione delle acque termominerali all’interno di un «Piano di tutela» più generale.

Nel 2010 interviene la Consulta

Il conflitto tra stato e regioni sulla competenza delle acque (come di altre materie) è stato risolto dalla Corte costituzionale nel 2010 (sentenza n. 1), imponendo alle regioni di dare alle concessioni una durata e di non offrirle più in perpetuo. Ma tale sentenza riguarda solo quelle nuove, per cui la situazione non è cambiata di molto e ciascuna regione ha attuato a proprio modo il regio decreto del 1927, in generale affidando le concessioni in base alla superficie di sfruttamento e non, ad esempio, in base all’acqua prelevata.

[do action=”citazione”]25% Entro il 2021 scadrà il 25% delle concessioni in essere. Potrebbe essere l’occasione per iniziare a mettere ordine e portare equità.[/do]

Il decentramento della Toscana

La Toscana è l’unica regione italiana ad aver affidato direttamente ai comuni (sono ben 279) il compito di gestire le proprie acque minerali. La Lombardia invece li ha affidate alla provincia di Milano e alle altre 11 province. A livello nazionale, il valore della superficie totale concessa è di 28.227 ettari, di cui il 41% è concentrato in Piemonte, Lombardia e Lazio. Tra le concessioni rilevate dal Mef solamente 1 (una!) è stata attribuita con gara (in Liguria nel 2015) e solo 5 attraverso almeno una evidenza pubblica.

Un esempio fra tanti, Ferrarelle

Facciamo solo un esempio fra tanti. Né peggiore né migliore di altri (anzi, per certi versi migliore, vedi il bilancio di sostenibilità 2017). Ferrarelle spa è un’azienda italiana con 370 dipendenti. Distribuisce tra le altre le acque minerali Ferrarelle, Vitasnella, Fonte Essenziale, Boario, Natía, Santagata, Roccafina. È il quarto produttore italiano (7,8% del mercato) e nel 2017 ha venduto 930 milioni di litri di acqua. A fronte di un fatturato netto di 142 milioni di euro ha pagato un canone di appena 634mila euro.

Acque termali, il caso di Ischia

Ischia è una delle zone più turistiche d’Italia. L’«Isola Verde» ospita decine e decine di terme e fumarole. La Regione Campania nel 2014 (governatore Caldoro, Fi) ha autorizzato in deroga alle norme europee la prosecuzione di 108 concessioni termominerali in essere per evitare l’affidamento a gara o con evidenza pubblica. La Campania, tuttavia, è tra le poche regioni che prevede un canone legato in parte al fatturato. In ogni caso, gli introiti per i canoni delle attività termali sono stati appena di 481mila euro.