La parabola che sale con immediatezza alla mente è quella raccontata da Kafka nel suo Il processo. In questo libro si narra di un uomo che giunge davanti alla porta della verità e della giustizia, e malgrado essa sia aperta egli decide di rivolgersi al custode (il potere frenante) chiedendo il permesso di poter entrare. Si può davvero chiedere il permesso per accedere a ciò che è nel diritto di ogni essere umano?

Ma tant’è. Il custode nega quel permesso e l’uomo decide di sedersi per aspettare. Continuando periodicamente a richiedere un permesso che gli viene puntualmente negato, sempre con la solita spiegazione per cui non è ancora il momento.

Passa un tempo lunghissimo, tanto che l’uomo ha potuto studiare le caratteristiche del custode con precisione certosina, fino a conoscere persino il numero delle pulci presenti nel suo collo di pelliccia. Il tempo è sovrano, forse l’unico dio di cui disponiamo in questa terra (e di cui vediamo e subiamo effetti ben tangibili).

Cosicché l’uomo giunge in punto di morte, e volendosi concedere almeno il lusso della curiosità, rivolge la domanda fatidica al custode: «Come mai in tutti questi anni sono stato l’unico a chiedere di poter entrare?». La risposta è fulminante: «Nessun altro poteva entrare perché questa era la vostra porta. E adesso andrò a chiuderla per sempre!».

Una storia che ricorda molto da vicino la parabola della sinistra contemporanea. Una sinistra che ha avuto la sua occasione nel 1989, ma l’ha sprecata affogando nella furia di rinnegare tutto il proprio passato, dismettere i propri valori e aderire, con lo zelo eccessivo del neofita, a quelli di un liberalismo che nel frattempo stava indossando nuovamente la veste ultraliberista.

In questo senso trova una spiegazione il trionfo odierno del Pd e del suo nuovo leader Matteo Renzi: «Altro che vittoria schiacciante della sinistra: l’uscita di scena del Cavaliere ha favorito e confermato in realtà il consolidamento di un’unica vastissima destra!».

È questo il ritratto duro e impietoso che emerge dalla lettura del nuovo libro di Stefano G. Azzarà, Democrazia cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia (Imprimatur editore, pp. 333, 16 euro).

Ma non è ovviamente tutto. Perché secondo l’autore non è soltanto che la sinistra oggi può finalmente governare e distribuire un bonus di ottanta euro ai propri elettori, rinunciando a se stessa e intestandosi il programma altrui. Il fatto principale, piuttosto, è che con la disfatta della sinistra bisogna prendere atto dell’estinguersi della democrazia.

Questa infatti, come ogni fenomeno che compare nel proscenio della vicenda umana, ha un inizio e purtroppo anche una fine. Secondo Azzarà deperisce quando i rapporti di forza in una società sono eccessivamente squilibrati e, di conseguenza, le parti più forti prevalgono in maniera schiacciante sulle altre. Senza nessun bisogno di chiamare in causa la P2 o chissà quali trame oscure, ciò che sta avvenendo è la normalità del programma e della prassi politica liberale nel momento in cui gli interessi delle classi dominanti non trovano più un’efficace risposta nel conflitto organizzato delle classi subalterne.

In questo senso, possiamo e dobbiamo smettere di parlare di un contesto democratico.

Secondo Azzarà, infatti, abbiamo assistito e stiamo assistendo a mutamenti imponenti che hanno svuotato gli strumenti della partecipazione popolare, favorendo una forma neobonapartistica e ipermediatica di potere carismatico e spingendo molti cittadini nel limbo dell’astensionismo o nell’imbuto di una protesta rabbiosa e inefficace. Al tempo stesso, in nome dell’emergenza economica permanente e della governabilità, gli spazi di riflessione pubblica e confronto sono stati sacrificati al primato di un decisionismo improvvisato.

Dietro questi cambiamenti c’è però un più corposo processo materiale che dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso ha minato le fondamenta stesse della democrazia: il riequilibrio dei rapporti di forza tra le classi sociali, che nel dopoguerra aveva consentito la costruzione del Welfare, ha lasciato il campo ad una riscossa dei ceti proprietari che nel nostro paese come in tutto l’Occidente ha portato ad una redistribuzione verso l’alto della ricchezza nazionale, alla frantumazione e precarizzione del lavoro, allo smantellamento dei diritti economici e sociali dei più deboli. Intanto, nell’alveo del neoliberalismo trionfante, si diffondeva un clima culturale dai tratti marcatamente individualistici e competitivi. Mentre dalle arti figurative alla filosofia, dalla storia alle scienze umane, il postmodernismo dilagava, delegittimando i fondamenti e i valori della modernità – la ragione, l’uguaglianza, la trasformazione del reale – rendendo impraticabile ogni progetto di emancipazione consapevole, collettiva e organizzata.

Il punto nodale è che è stata la sinistra, e non Berlusconi, il principale agente responsabile di questa devastazione.
Una sinistra sterilmente aggrappata al valore anacronistico dell’«antifascismo», con i parlamentari di Pd e Sel che, esattamente un anno fa (28 gennaio del 2014), cantavano «Bella ciao» in parlamento per celebrare l’approvazione di un decreto che (sapientemente blindato dalla presidente della camera) in realtà si rivelava come l’ennesimo grosso favore alle banche.

E dire che la potenza «antifascista» per eccellenza è in realtà l’America, pronta ed efficace nell’affibbiare la patente di «fascista» all’Islam (Daniel Pipes) e di volta in volta ai vari protagonisti della politica che osano opporsi alla fabbrica del consenso made in Usa.

L’economista J. K. Galbraith scrisse che «sotto il capitalismo l’uomo sfrutta l’altro uomo, sotto il comunismo avviene il contrario».

La sinistra odierna ha ritenuto un’operazione particolarmente sagace scegliere con entusiasmo la prima opzione.