Vedere le dinamiche politiche estere in un’ottica aggrappata al dibattito locale non è segno di grandi orizzonti. Dato che il tono della discussione politica sembra negli ultimi anni fortemente segnato da una buona dose di provincialismo, non è troppo sorprendente che le vicende vissute dalla Grecia vengano accostate al tema Grillo/uscita dall’euro. Senza eccessiva acutezza.

E’ così che la crisi greca viene vista come un episodio locale, che potenzialmente può debordare dai suoi confini spandendo instabilità e richiama semmai ad una benigna assistenza compassionevole. Sembra eccessivo lo sforzo di inquadrarla come il punto in cui si incrina il sistema dell’eurozona basato su una massiccia finanziarizzazione. Perciò capita di sentire parlare di Grecia in Otto e mezzo dove Udo Gumpel non trova di meglio che agitare come cause della crisi l’eccesso di spesa pubblica improduttiva e di dipendenti pubblici (aggiungendo con gelo teutonico un parallelismo con l’Italia…). Già diffusa tale “causa” nel 2012 per esempio dal Sole 24-Ore che citava il rapporto dell’Ocse Government at glance 2011 – peccato che il rapporto non dicesse esattamente questo, in quanto mostrasse che un numero maggiore di lavoratori pubblici lo avessero ben 8 fra i 28 paesi:, Norvegia, Danimarca, Francia, Finlandia, Slovenia, Estonia, Polonia, Olanda.

Cosa succede in Grecia? C’è stato un roboante tonfo della Borsa di Atene che viaggia a livelli piuttosto bassi. In realtà tutto il trend del 2014 tende al ribasso, con la punta estrema del 16 ottobre, una risalita a sbalzi, con vistose ricadute a metà novembre e una timidissima ripresa, subito affossata a inizio dicembre. Una delle cause sarebbe l’instabilità politica: il premier Samaras ha indetto le elezioni per il presidente della Repubblica e se ci sarà lo stallo si andrà ad elezioni anticipate. Per le quali è favorita Syriza.

In realtà Alexis Tsipras non ha manifestato la volontà di uscire dall’euro – suscitando il mal di pancia della componente più radicalmente antieuropea del suo schieramento – ma ha messo una pesante ipoteca sul pagamento del debito pubblico: intende negoziare una riduzione drastica di esso, mettendo fine alle politiche di austerità e alla Troika (pare che Joerg Sponer, analista finanziario di un fondo speculativo abbia definito il programma «peggiore del comunismo»).

Ma ci sono altre cause da considerare: il governo greco in effetti ha premuto per uscire dal programma di “salvataggio” e austerità imposto dalla Troika. Subito dopo l’annuncio i mercati avevano reagito male e si può capire il perché: essendo tutto l’impianto delle misure di austerità funzionale a trasferire su cittadini, lavorati ed economia reale il peso degli oneri, l’eventualità che in un modo o nell’altro tale tutela si smorzasse non è molto gradita. Infatti l’eurogruppo (il gruppo di paesi dell’eurozona) si è premurato di far sapere a Samaras (che presumibilmente sente le pressioni del consenso che scema) che la cosa sarebbe stata del tutto prematura.

Ne deriva la conclusione che al di là delle cause legate ai contesti locali più o meno credibili (tassi di corruzione, pigrizia “culturale”, eccesso di spesa pubblica) le cause prime risiedono da un lato nella integrazione dei mercati finanziari, l’apice del processo di unificazione europea come si è configurato sino ad oggi, altrimenti risulta difficile capire come un paese che rappresenta circa il 2% dell’economia dell’eurozona possa essere così minaccioso; dall’altro nella integrazione – o forse, fusione – con la sfera dell’economia materiale. Il sistema attuale dimostra di essere incapace di dissolvere tale processo, perché così dissolverebbe se stesso, e per far fronte alle contraddizioni che esso genera, scarica i costi verso il basso attivando retoriche giustificative di una politica punitiva del pubblico impiego, del welfare, dei cittadini.