Che cosa ci raccontano le immagini del Fid Marseille la cui edizione dei trent’anni si è chiusa ieri? Ci parlano del mondo o prima ancora di come riuscire a catturarlo, di quali sono le sfide di una storia, di cosa si può o si deve o non si deve mettere in gioco, di quali sono i limiti, le stranezze, gli imprevisti. Ci sono nei film visti questi giorni «motivi» che ritornano come i luoghi, la cui memoria, che si deposita dove è inaspettato narra qualcosa di importante. Non si tratta dei monumenti riconosciuti come tali, la cui identificazione con la storia è data per statuto, è parte dei libri, sono piuttosto quei posti ordinari, paesaggio di un quotidiano invisibile che esplode all’improvviso come ieri Marsiglia: un doppio 14 luglio, i fuochi d’artificio dalle terrazze e la festa in strada per la vittoria dell’Algeria nella finale di coppa d’Africa.

ECCOCI DUNQUE nel quartiere dove ha vissuto Ignacio Aguero, regista cileno di Nunca Subì El Provincia: le strade, le case, i negozi, le figure di una vita di cui prova a ritrovare l’esistenza. Nella casa dove è cresciuto sono stati uccisi Kennedy e Che Guevara, Allende ha vinto, suo padre è morto. In quella dove si sono trasferiti la madre è morta e Allende è stato assassinato: quanto l’esistenza privata di ciascuno si intreccia a quella collettiva? C’era un uomo che somigliava a Peter O’Toole e la camiciaia ricorda ancora che le portava a cucire i bottoni.

Era affascinante, seduttivo … E poi? Le case sono state vendute, altre persone, altri luoghi, la vita che scorre, le immagini di bambini, una ragazza incinta, una lettera forse immaginaria.. Aguero – che è stato l’autore dello spot No nella campagna contro Pinochet – e che ha vinto il Fid nel 2017 con Como me da la Gana – mette in scena una ricerca sul tempo che è dentro e fuori le immagini, in cui si interroga il gesto stesso del filmare come già nel film precedente che partiva da un suo cortometraggio girato durante la dittatura.

A DIFFERENZA di Guzman, con cui risuonano delle affinità nella scelta di porre al centro i luoghi e da lì tracciare una geografia umana, Aguero non cerca di costruire delle conclusioni, il suo vagabondaggio lascia aperto l’orizzonte, si fa vissuto personale che il gesto del filmare porta verso il mondo.L’archeologia dei luoghi è anche il «metodo»di investigazione cinematografica per Ute Adamczewski, artista, montatrice (The Dubai in me, 2010) che in Status and Terrain ricostruisce la storia della Germania attraverso dettagli che nulla sembrano conservare del passato. Una birreria in Sassonia, la voce off ci dice che lì sono stati istituiti i primi campi di concentramento, nel marzo del 1933, per avviare l’eliminazione di tutti gli oppositori politici. Cosa è rimasto oggi? Anni dopo quegli stessi paesaggi appartengono alla Germania socialista, rapporti di polizia, testimonianze, archivi: le storie si inseguono eppure le immagini al presente non sembrano conservare nulla di quanto è accaduto. Strategia di cancellazione? Potenza dell’oblio? La «riunificazione» ha fatto sparire dal quadro molto altro, la storia si riscrive quasi si possa riavvolgere in nastro eppure niente può essere neutro: bastano un dettaglio, un frammento.

Status and Terrain si iscrive in quella tendenza di un cinema tedesco che cerca una narrazione del passato e del presente attraverso un dispositivo ben evidente, creando una cesura costante tra parola e immagine, contro ogni sentimentalismo, in cui l’evidenza assume uno spessore crudele, netto, a volte in questo caso non sempre controllato – difetti di un’opera prima. Rimane però la scommessa di cercare un confronto con la realtà che rifiuta le immagini abituali opponendovi l’eccezione della quotidianità.

Leonor Noivo è una regista, Patricía Guerreiro è un’attrice: insieme decidono di creare un personaggio nel quale riversare la propria esperienza, una ragazza, Marta, che vive in campagna, e passa le giornate nel rituale di devastazione – o sublimazione? – del proprio corpo. Raposa è un film personalissimo e al tempo stesso basato sulla distanza che ne permette l’esistenza e la narrazione. C’è forse qualcosa di squilibrato, ci sono forse molti silenzi ma: potrebbe essere diversamente parlando di anoressia?

LE GIORNATE di Marta sono fatte di numeri: le calorie che ingurgita, i grammi sulla bilancia, i passi che inanella uno dopo l’altro. Stende i panni si guarda intorno, silenziosa, ripete gesti giorno dopo giorno. Osserva quel corpo magrissimo che odia e che vorrebbe far scomparire, consapevole al tempo stesso che quel corpo è lei. Marta, cioè Patricía, attrice e anche autrice, nel 16 millimetri di Noivo che si sofferma sulla relazione intima, in voce fuori campo, della sua protagonista con sé stessa e con quanto la circonda in quella spirale ossessiva di controllo su ogni cosa. Malattia o visione del mondo?

La parola «anoressia» non si pronuncia mai, è controllo, una gabbia del rito, la negazione di ogni istante di piacere, anche l’acqua calda nella doccia, la sessualità, le carezze, l’aria che si respira, un modo per sfuggire i sentimenti. Nessun dolore. O troppo. Raposa, che significa Volpe, è un po’ come si pensa la protagonista in questo strano duetto, soffocato in un monologo, relazione che non pone domande.

UNA BALENA è invece la visione che ritorna nei sogni della figlia di Andrew Kotting, Eden, malata di sindrome di Joubert. Cosa vedi, dove sei chiede la voce di una donna, forse la madre, alla ragazza mentre dorme. Inizia da qui un viaggio nel fantastico, un po’ come in altri film del regista inglese, che ruota intorno a Eden, figura sempre presente nei film del regista inglese, stavolta protagonista di questa immersione in un universo onirico e fantastico sfuggente, nel quale si accavallano mitologie che sono forme cinematografiche; sperimentazioni, frammenti di cinema, bambini che giocano mascherati in un eterno giardino di fiaba. Nel viaggio lo stesso Kotting incontra Ia Sinclair, con la sua scatola di ossa di balena che racchiude un mistero… The Whalebone Box, il titolo del film, arriva dunque in Scozia, sulle isole Harris, le cui spiagge sono all’origine di quell’enigma. E al tempo stesso nelle visioni di Eden, un altro enigma, quello di una coscienza impenetrabile, al cui flusso le immagini del regista provano a accordarsi. Ma non è quello di reinventare mondi il senso del cinema?