Due diverse visioni dell’oriente esotico e lontano, uscite dalla penna dello stesso compositore: Butterfly e Turandot si contendono la scena alle Terme di Caracalla, offrendo insieme alla ripresa de La Bohème un tutto Puccini che sembra funzionare molto bene anche al botteghino, con la nuova platea dai posti aumentati, con un perfezionato e efficace sistemadi aplificazione audio.

Il fascino del Giappone è ormai solo un ricordo nella visione di Alex Ollé della Fura dels Baus, affidato agli abiti vaporosi rossi e bianchi del corteggio nuziale: l’atto iniziale si svolge in una radura, con il catering allestito alle spalle di un boschetto verde, presto invaso da ceffi stile Jakuza, amici dello zio Bonzo, pronto a rinnegare la nipote. Negli atti successivi alla foresta si sostituisce la speculazione edilizia, con i grandi ruderi romani tramutati in grattacieli finiti a mezzo ( video di Franc Aleu), quelli della Pinkerton Costruzioni, pubblicizzati da un gran cartello. Ultimo anello della catena, fra file di cittadini cacciati dai vecchi quartieri (il coro a bocca chiusa) è la casetta- baracca di Cio Cio San, ostinata nella fede alla sua presunta dignità di sposa americana, in shorts di jeans e maglietta con decoro stelle e strisce.

L’inevitabile epilogo finale è la tragedia, in nome della salvezza del figlio e del rispetto per un marito che l’ha solo comprata per una stagione. Carattere simbolico e narrazione senza tempo invece per la Turandot, dove l’esotico si fa fiaba e annulla ogni contrasto sociologico fra Oriente e Occidente (fino all’8 agosto).

Il confronto è invece fra realismo e visione onirica: una storia che è anche proiezione mentale, e nello spettacolo interamente firmato da Denis Krief – dalla regia alle luci – si ferma al compianto mortale di Liù, fino a dove dunque Puccini aveva compiutamente strumentato la partitura. Liù e Turandot, nella storia senza finale, si equiparano, si sfidano nel cuore e nella mente di Calaf, nell’arena creata dalla grande muraglia di pannelli mobili di bambù, da cui emerge il coro e sotto cui vanno e vengono il gong, i ministri, la capanna ricetto del povero Timur e una popolazione di elementi antropomorfi ora figura suprematista ora bambola kokeshi, simbolo dei tanti pretendenti decapitati, ma anche del popolo muto di Pekino e dei giochi di una Turandot bambina mai cresciuta.

Svanisce Turandot, nel momento in cui Liù si uccide e lo spettacolo si spegne lasciando senza più amore o nomi da rivelare il principe ignoto, mentre la luna pallone balla nelle mani del Mandarino. Nella Butterfly (recite fino al 6 agosto) ha riscosso un vero trionfo la commovente Asmik Griorian, e hanno offerto una buona prova Fabio Sartori (Pinkerton), Stefano Antonucci (Sharpless ) e Anna Pennisi (Suzuky).

Attenta e molto partecipe la lettura di Yves Abel sul podio. Juraj Valcuha ha invece proposto una lettura di Turandot molto analitica, aspra e precisa nei riferimenti alle elaborazioni dei linguaggi del XX secolo genialmente sintetizzate da Puccini.
Jorge de Leon era un Calaf stentoreo più che innamorato, mentre Irene Theorin e Maria Katzarava restuivano una Turandot e una Liù plausibili ma forse non troppo avvantaggiate dal canto con il microfono. Solido e commovente il Timur di Marco Spotti, e graffiante il terzetto delle maschere (Massimiliano Chiarolla, Gianluca Floris e Igor Gnidii). Successo per tutti ma Cio Cio San per ora non ha rivali nel cuore del pubblico romano.