Lo storico statunitense Charles King, non ancora cinquantenne, ha già pubblicato una collana di libri che forniscono una mappa del territorio e della complessa storia dell’Europa orientale: dopo uno studio sulla Moldova (1999) ha scritto un’affascinante Storia del mar Nero nel 2004, subito tradotta da Donzelli (2005), raccontando quindi la storia del Caucaso e della città di Odessa (entrambi i volumi sono tradotti da Einaudi). L’incontro con la storia di Costantinopoli era dunque inevitabile. Il gusto erodoteo per la narrazione circostanziata ma accattivante rende la sua prosa uno strumento che taglia una materia intricatissima per poi ricomporla in pezzi digeribili. King sceglie di raccontare la Istanbul della prima metà del Novecento, un arco definito ma piuttosto ampio che va dalla fine dell’impero ottomano al secondo dopoguerra, ovvero gli anni in cui la repubblica turca consolida la sua adesione alla Nato. Qualunque libro di storia che si proponga come sguardo complessivo sulla Città si candida al fallimento e King riassume in meno di quattrocento pagine (tutte assai scorrevoli) mezzo secolo di storia assai densa. Mezzanotte a Istanbul (traduzione ragionevolmente precisa di Luigi Giacone, Einaudi, pp. 424, euro  32,00) fin dal titolo allude a un racconto seducente, al limite dell’orientalismo; ma il lavoro pesante spetta tutto al sottotitolo: Dal crollo dell’Impero alla nascita della Turchia moderna.

Ancora più romanzesco il titolo inglese, Midnight at the Pera Palace: the Birth of Modern Istanbul giustificato dal filo rosso che riguarda il famoso hotel Pera Palace, costruito alla fine dell’Ottocento per accogliere i passeggeri europei dell’Orient Express e che nel corso del Novecento avrebbe ospitato nobili russi in fuga, spie di tutto il mondo, scrittori (tra cui Agatha Christie), uomini politici (tra i quali Mustafa Kemal) e avventurieri d’ogni sorta. Centrare il racconto sul Pera Palace significava assumere un punto di vista occidentale sulla storia di Istanbul, ovvero seguire le tracce delle minoranze non musulmane in una città che nel corso del Novecento è stata sottoposta a un processo di progressivo impoverimento della mistura di popoli e di religioni tipica dell’epoca tardo-ottomana, a favore di chi era o si dichiarava turco e musulmano, essendo al tempo stesso laico e fiducioso nel progresso.

La strategia di King tuttavia non è quella di vincolarsi alla storia di un edificio, per quanto significativo: l’architettura di Mezzanotte a Istanbul si fonda piuttosto su una sequenza di biografie. Ci sono l’imprenditore greco Prodromos Bodosakis, che acquistò nel 1919 il Pera Place dalla società Wagon-Lits, il generale inglese George Harington che si trovò a fronteggiare l’arrivo in città di migliaia di profughi russi bianchi, mentre a Gallipoli svaniva il sogno del suo governo di ampliare il proprio impero alle spese dell’ultimo sultano; la scrittrice femminista Halide Edip, che si unì all’esercitò di Kemal e poi per divergenze con il capo scelse la via dell’esilio; la cantante ebrea di lingua greca Roza Eskenazi che, esiliata come tanti da Istanbul a Salonicco e poi ad Atene negli anni venti, trovò il successo nella nascente industria discografica proponendo il repertorio del rebetiko; Lev Trockij, che incontrò nel suo esilio a Istanbul il mandante del suo omicidio in Messico; Angelo Roncalli (futuro Giovanni XXIII), delegato apostolico in Grecia e in Turchia dal 1934 al 1944, che collaborò con Ira Hirschmann (War Refugee Board) e Chaim Barlas (Agenzia Ebraica) alla salvezza di centinaia di ebrei ungheresi; e questi sono solo alcuni dei tanti personaggi scelti da King per raccontare con vivacità svetoniana la città di Istanbul, negli anni che videro il tramonto dell’impero e la nascita della repubblica.
Il rischio del genere biografico è quello di deformare la realtà ingigantendo un attore e lasciando sullo sfondo altri che ebbero uguale importanza storica: Charles King da un lato minimizza questo rischio moltiplicando il numero dei personaggi cui fa calcare la ribalta, dall’altro dà l’impressione di aver scelto la strategia più adatta alla storia che voleva raccontare, perché il destino della Città nel Novecento, come quello di tutto il paese che oggi si chiama Turchia, fu forgiato essenzialmente dall’azione militare e politica di un singolo uomo, Mustafa Kemal, che in seguito alla «legge dei cognomi» da lui stesso voluta, si sarebbe chiamato Atatürk. Le pagine a lui dedicate sono tra le migliori del libro, anche perché offrono una descrizione molto chiara del suo progetto di laicizzazione e turchizzazione del paese, ovvero del kemalismo, riducendo al minimo l’aneddotica. «Nel 1924 e 1925 – scrive King – fu abolito l’ufficio del seyhülislam, vennero soppresse le corti islamiche, e l’uso dei turbanti e di altri elementi dell’abito religioso fu limitato a pochi rappresentanti del clero nominati dal governo… I kemalisti adottarono il termine francese laïcité, il cui calco in turco, laiklik, non prevedeva la separazione tra religione e stato, ma piuttosto un attento controllo della prima da parte del secondo.

Alla mezzanotte del 31 dicembre 1925, la Città e l’intera Turchia cominciarono a regolare gli orologi secondo l’ora il mese e l’anno dell’Occidente, abbandonando ufficialmente la cronografia islamica ottomana. King trova giustamente traccia di questa volontà di stare «al passo coi tempi» nel romanzo L’istituto per la regolazione degli orologi di Tanpinar (del 1961, tradotto da Einaudi nel 2014) e in genere considera musica, cinema e letteratura come documenti storici dello spirito dell’epoca (un intero capitolo è dedicato a Halide Edip e uno a Nazim Hikmet). Mezzanotte a Istanbul è dunque l’omaggio di uno statunitense a un mondo che novant’anni fa rifiutò di dissolversi e rinacque sulle sue ceneri, occidentalizzandosi proprio perché non cadde nelle mani delle potenze occidentali che (Italia compresa), sulla base del Trattato di Sèvres, si apprestavano a spartirsene i territori. Il ritorno all’Islam sunnita della Turchia di oggi e, più in generale, la grande forza politico-militare che l’identità religiosa islamica mostra ora nel Medio Oriente e nel mondo contrastano aspramente col kemalismo rievocato da King. Al termine della lettura rimangono in attesa di risposta almeno due domande. La prima: la laicità kemalista che si fondò sul nazionalismo (a danno delle identità curde e armene), e che rifiutò l’internazionalismo comunista (attraendo invece, per esempio, il grande poeta turco Nazim Hikmet) fu una scelta obbligata o un errore? E gli occidentali del secolo scorso che frequentavano il Pera Palace guardando gli abitanti dei dintorni con un senso di superiorità sono ancora un modello o erano cigni che cantavano morendo?