«A Marawi tutti pensavamo: di certo loro non oseranno farci questo». In un caffè nel centro di Iligan, città a statuto speciale all’interno della provincia di Lanao del Norte a una quarantina di chilometri da Marawi, Salma Naga Marohombsar ridimensiona l’esplosione del conflitto di Marawi in ordini di grandezza concentrici: dall’internazionale al nazionale, finendo nel regionale e nel locale, dimensione più adatta a spiegarsi cosa sia successo nella prima città musulmana delle Filippine che dal 23 maggio è finita nella geografia del terrorismo islamico transnazionale.

SALMA, NATA E CRESCIUTA a Marawi, vive all’interno del campus della Mindanao State University, ateneo d’eccellenza della città, dove insegna nel dipartimento di matematica. Sposata, due figlie tra asilo e scuola elementare, Salma è di fede musulmana. Appartiene a uno dei tredici gruppi etnici che compongono il popolo Moro, nome che nel sedicesimo secolo gli spagnoli invasori diedero agli abitanti autoctoni di Mindanao, dove l’Islam era arrivato assieme alle navi commerciali del golfo persico almeno tre secoli prima.

I MORO DA SECOLI RIVENDICANO il diritto di autodeterminarsi e riprendere il controllo del proprio territorio, ricco di materie prime e fertile, indebitamente «venduto» dagli spagnoli agli americani alla fine del 19° secolo e poi «naturalmente» inglobato nelle Filippine indipendenti.

Sigle storiche dell’indipendentismo come il Moro Islamic Liberation Front (Milf) e il Moro National Liberation Front (Mnlf) da almeno vent’anni hanno parzialmente abbandonato le armi, intrattenendo faticose trattative coi governi di Manila per la creazione del Bangsamoro, la «nazione dei Moro». Trattative che finiscono in accordi di massima mai davvero implementati, aumentando la frustrazione di giovani Moro – come i fratelli Maute – che alla lentezza della diplomazia preferiscono la dirompenza del terrore. Se questo può accadere sotto il brand di Isis, a conti fatti, tanto meglio. Come il resto degli abitanti di Marawi e dintorni, Salma è una Maranaw (abitanti del lago), appartenente al gruppo etnico noto in tutto l’arcipelago per il proprio proverbiale senso dell’orgoglio: il maratabat.

«Se il buon nome della tua famiglia viene insultato, tutti i maschi della famiglia sono chiamati a sostenerti qualsiasi cosa tu faccia. È il maratabat»

E qualsiasi cosa, secondo l’ancestrale metodo di risoluzione delle faide tra clan – il «rido» – significa pretendere scuse ufficiali, imporre compensazioni o, spesso, prendere le armi e reclamare nel sangue la giustizia tramandata da generazioni di Maranaw.

È IN QUESTO CONTESTO di orgoglio marziale che, quando i primi segnali di un attacco dei Maute – anch’essi di etnia Maranaw, ma originari di Butig – emergevano addirittura sui social network, nessuno pensava che un clan di Maranaw potesse attaccare la città, sorta proprio sulle rive del lago Lanao. «Qualcuno li fermerà», si diceva, confidando in un tessuto sociale coeso di fronte alla minaccia comune e, soprattutto, non estraneo all’uso della forza.

LO STESSO ERRORE DI CALCOLO commesso dal presidente Duterte nel 2016, quando a una prima offensiva militare contro il quartier generale di Butig, i due fratelli Omar e Abdullah Maute avevano messo in guardia tutti: lasciateci fare, altrimenti attaccheremo Marawi. Duterte, alla platea del Wallace Business forum, nel dicembre 2016 spiegò di averli sfidati mandando a dire: «Avanti, fatelo!». Cinque mesi dopo, l’alleanza tra i Maute e gli uomini di Abu Sayyaf, in risposta al tentato arresto del leader Isnilon Hapilon, prese il controllo della città, dimostrando una pianificazione certosina sottovalutata dall’intelligence di Manila e costringendo a un esodo doloroso e disonorevole centinaia di migliaia di fratelli e sorelle Maranaw.

NELLE CAMPAGNE DI LANAO del Norte, Lanao del Sur e nella città di Iligan, almeno 360mila persone sono accampate dal 25 maggio in vari livelli di disagio: il 90 per cento di loro, secondo il governo, è «home based», ospitato da amici o parenti che – in ottemperanza del maratabat – non possono rifiutare loro aiuto materiale.

Il resto, quasi 25mila persone, sono dislocate in 75 centri di evacuazione ufficiali o «spontanei», ricavati in strutture abbandonate e fatiscenti. La mancanza di acqua corrente, servizi igienici e cibo accomuna tutti sfollati. Una famiglia «home based» a Pantar, 12 km da Marawi, si è sistemata in una ex stalla divisa in due ambienti non più grandi di 5 metri quadri: in uno, a terra, dormono cinque figli e la madre; nell’altro, stretto tra pile di vestiti prestati e le braci del falò usato per cucinare, il padre.

NELLA TENDOPOLI di Pantawragat, oltre duemila persone aspettano di poter rientrare a Marawi vivendo in tende del Dipartimento per il Social Welfare e lo Sviluppo filippino (Dswd), che fornisce a scadenza irregolare anche le razioni di cibo: 10 chili di riso di bassa qualità e alcune latte di companatico, che una famiglia normale finisce in meno di nove giorni.

L’ex scuola di Torrel Monerah, periferia di Iligan, è un enorme palazzo di tre piani da lungo tempo caduto in disuso. Quando lo visitiamo, assieme alla ong Action Against Hunger, troviamo decine e decine di cubicoli realizzati con teli e coperte appese a dei fili. Ci sono centinaia di sfollati, all’addiaccio da quasi quattro mesi. In un angolo, due uomini chinati «alla orientale» sorvegliano due pentole appoggiate su travi di legno in fiamme. Poco più in là, un terzo uomo fa la legna con un machete.

«NESSUNO CI HA AVVERTITO di nulla, tutti siamo scappati perché vedevamo i nostri vicini scappare» mi spiega Salma, ricordando che nel delirio collettivo il tragitto da Marawi a Iligan è durato quasi 14 ore: di solito, ci si impiegano nemmeno quaranta minuti di auto.

In molti sono fuggiti a piedi, lasciandosi dietro tutto quanto, convinti che Duterte – Maranaw, da parte di madre – avrebbe sistemato tutto nel giro di pochi giorni. Così non è stato e Duterte, il primo presidente proveniente da Mindanao, da più di 100 giorni bombarda quotidianamente le loro case. Nel frattempo, gli orgogliosi Maranaw sono soggetti all’insulto di chiedere cibo e rifugio, spesso scontrandosi con la secolare discriminazione che serba loro il resto della popolazione filippina, cristiana, per cui i Moro musulmani sono da sempre «un problema».

E mentre i video dei droni girano sui social network, mostrando la città in macerie, cresce tra i Maranaw l’odio per il governo di Manila

«Loro ci hanno attaccato con le armi, e potevamo combatterli. Ma Duterte ha mandato le sue bombe, distruggendo le nostre case, le nostre copie del Corano tramandate da generazioni, le tele tessute a mano dalle nostre madri e nonne. Una cultura che stava morendo ora non c’è più. E i giovani incolpano Duterte» mi dice Salma. E da Iligan, il fervore estremista di Isis sembra davvero l’ultima delle motivazioni, ma la migliore delle scuse, che potrebbe spingere una nuova generazione di Maranaw a imbracciare le armi.