La grande retorica divenuta pensiero dominante recita che il mercato non ha necessità dello Stato per funzionare bene. Dà infatti il meglio di sé – nel garantire un benessere variabile secondo le capacità a tutti gli abitanti della società – ogni volta che il potere politico smette di intromettersi nell’attività economica. Più che grande retorica, avverte Robert Reich nel volume Come salvare il capitalismo (Fazi editore, pp. 332, euro 22), è una menzogna bella e buona. Il neoliberismo si basa infatti su una diversa regolazione dell’attività economica. Non dunque sull’assenza di regole, ma di norme differenti, antitetiche da quelle che dagli anni Trenta sono diventate egemoni nel capitalismo. E se dagli anni Trenta del Novecento, lo Stato era diventato sia il garante di alcuni diritti sociali – la salute, la pensione, la formazione – che anche imprenditore, dalla meta degli anni Settanta dello stesso secolo in poi ha progressivamente cancellato quella strutture istituzionali, sostituendole con leggi e norme favorevoli solo alle imprese e demolendo così il «compromesso tra capitale e lavoro».

Robert Reich è un liberal che ha ricoperto ruoli politici rilevanti – è stato ministro del lavoro durante la prima presidenza di Bill Clinton – ed è un docente apprezzato per uno studio sulle «economie delle nazioni», ritenuto uno dei primi saggi sulla globalizzazione. Abbandonato l’incarico istituzionale è tornato nelle aule universitarie per insegnare economia industriale e economia del lavoro. Personaggio noto per le sue molteplici collaborazioni con quotidiani e riviste, ha fatto parlare di sé per l’annuncio di ritirarsi dalla scena pubblica per dedicarsi alla famiglia e all’educazione dei figli. Proposito mantenuto per poco tempo, visto che ha mandato alle stampe moltissimi libri: sul «turbocapitalismo», sulle guerre culturali negli Stati Uniti, sugli effetti della crisi del 2007-2008 e, infine, sul capitalismo emerso dalla grande crisi. Decisamente avversario del regime neoliberista è stato spesso ritenuto un democratico di «sinistra», collocazione politica che questo libro smentisce decisamente.

Keynesismo di ritorno

Il titolo – Come salvare il capitalismo – esprime chiaramente l’obiettivo del saggio. Ciò che Reich vuol ripristinare è un modo di regolare l’attività economica e il rapporto tra questa e il sistema politico che può essere definito keynesiamo. Dunque, diritti sociali garantiti, nelle forme istituzionali che hanno caratterizzato il capitalismo statunitense – redistribuzione del reddito, contenimento della forbice delle diseguaglianza sociali e argini alla «logica di potenza» delle imprese, che ha portato il sistema politico di Washington ad essere spesso ostaggio delle lobby. Il suo è un riformismo light, che non disdegna di usare toni hard quando si tratta di stigmatizzare le politiche liberiste che hanno contraddistinto le presidenze repubblicane o della stessa amministrazione Clinton, nonche delle decisioni delle Corte Suprema o di leggi approvato dal congresso a favore del capitale. E non è tenero neppure quando denuncia la subalternità della politica a Wall Street.

Così si dilunga a lungo su come le norme sulla proprietà intellettuale hanno solo favorito le multinazionali high-tech, farmaceutiche, agro-alimentari e della chimica. Sotto tiro non sono solo le leggi sul diritto d’autore che hanno reso il software proprietà esclusiva delle imprese, ma anche i brevetti sui farmaci, che assegnano un potere immenso alle multinazionali farmaceutiche sulla vita (e la morte) di uomini e donne. L’immoralità delle loro azioni, argomenta Reich, sta nel vendere farmaci salvavita a prezzi che sono una minoranza della società può permettersi.

Ogni esempio scelto dall’economista ruota attorno allo stesso nucleo argomentativo. Nel neoliberismo lo Stato non scompare, anzi è molto presente. Ma invece che essere garante della salute pubblica è diventato il garante delle strategie capitalistiche. Il case study più eclatante del libro è però quello relativo allo spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale avvenuto non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il Nord globale.

La precarizzazione del rapporto di lavoro, la differenziazione tra lavoratori che ancora accedono alla tutela sanitaria e chi ne è escluso hanno provocato la crescita di un numeroso esercito di working poor, i lavoratori poveri costretti a svolgere più lavori per raggranellare un salario di mera sopravvivenza. Ma a determinare lo spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale è anche la difficoltà di poter accedere a buoni college e università a causa delle alte retta da pagare, ostacolo che è spesso aggirato tramite l’indebitamento dei genitori o dello stesso(a) studente/studentessa.
Reich manifesta nostalgia per gli istituti del public domain e delle affermative action che nel recente passato hanno consentito alla società americana di attivare forme istituzionali di mobilità sociale verso l’alto. Ed è con questo spirito che difende le proposte, meglio le misure di Barack Obama sull’innalzamento del salario minimo orario. Per Reich è la prima misura a favore del lavoro presa da un presidente degli Stati Uniti da tantissimi anni.

Arrivano i voucher

Reich fa però confusione sul reddito minimo. Negli Stati Uniti c’è stato anche un neoliberista radicale come MIlton Friedman che è stato a favore di un reddito minimo garantito nelle forme di voucher per acquistare alcuni beni e servizi. Non è certo il reddito di cittadinanza europeo. Semmai è una forma di integrazione del salario o di sussidio di disoccupazione vincolati comunque alla disponibilità ad accettare qualsiasi tipo di lavoro che le «agenzie dell’impiego» – ce ne sono di private e di pubbliche negli Stati Uniti – propongono. Sta di fatto che per Reich tanto il salario che il reddito minimo sono misure a favore del lavoro. Perché il capitalismo si può salvare solo attraverso una redistribuzione della ricchezza. È questo il riformismo light di Reich. Da condividere, ovviamente, anche se rimane l’impressione di svuotare l’oceano con un secchiello. Lodevole intenzione, destinata però ad essere frustrata dai rapporti di forza esistenti nel capitalismo. E se non si cambiano quelli ogni intenzione rimane solo lodevole.