Sergio Bianchi, editore di DeriveApprodi e vicepresidente della cooperativa Doc(k)s, perché una fiera dell’editoria indipendente a Milano?
Uno dei motivi è che Milano, e la Lombardia in generale assorbono circa un terzo delle vendite dei libri nel nostro paese. Ma soprattutto la fiera vuole essere un momento di dibattito tra gli editori indipendenti su ciò che sta accadendo nel mercato editoriale nazionale. A partire dalla continuità di quel che già da anni abbiamo chiamato concentrazione monopolistica, un processo che investe la produzione e tutta la filiera commerciale: distribuzione, promozione e vendita.
Quali sono gli obiettivi che intendete raggiungere?
Realizzare finalmente una fiera che non sia di polli relegati nei loro piccoli tristi pollai, ma una fiera sentita come propria da chi la fa vivere e la apre al proprio pubblico. In questo sta il senso del nome che gli abbiamo voluto dare: orgoglio. L’orgoglio di gestire in prima persona tutte le fasi della sua ideazione e organizzazione, dimostrando che è possibile progettare e gestire un evento come questo senza alcun finanziamento pubblico o privato. Attraverso questo metodo di lavoro di cooperazione l’obiettivo che si vuole raggiungere è il rafforzamento dell’indipendenza dell’agire culturale per la difesa e la crescita della bibliodiversità.
Che cos’è Doc(k)s e come funziona?
Docks è una società cooperativa che ha cominciato a operare dallo scorso settembre. Raccoglie una novantiva di persone diverse per età e professione, oltre a una decina tra associazioni e spazi sociali. Il suo obiettivo è promuovere intraprese culturali diversamente orientate. La fiera Book Pride è la prima iniziativa di respiro nazionale che Doc(k)s gestisce sul piano logistico-organizzativo, finanziario e amministrativo. Ma Doc(k)s ha avviato altri comparti di lavoro, come la formazione editoriale, la produzione e distribuzione di audiovisivi, gli eventi di MaceroNo che fanno parte del progetto di costruzione di un secondo mercato dell’editoria indipendente e di qualità. Molti editori producono buoni, a volte ottimi libri che a causa dell’attuale sistema distributivo rimangono nelle librerie per un tempo irrisorio, finendo poi in resa con destinazione macero, cioè distruzione. Il nostro progetto è salvarli da questo assurdo destino.
Sono molti anni che si parla di indipendenza editoriale. Tu sei uno dei protagonisti di questa scena. Cos’è cambiato rispetto a venti anni fa?
Prima l’indipendenza culturale era quasi unicamente identificabile in ambiti di produzione e distribuzione marginale dal punto di vista del mercato «ufficiale». Nel corso degli anni chi si è decisamente schierato su questo terreno, nonostante fallimenti e frustrazioni, ha accumulato esperienza, elaborato strategie e costruito strutture. Oggi le reti dell’indipendenza possono avere un peso non irrilevante nel salvarci dall’omologazione culturale responsabile dei danni che stanno sotto i nostri occhi. A condizione che tra loro cooperino, cioè che si organizzino.
Com’è cambiato da allora il lavoro culturale?
Una volta era organizzato secondo criteri imprenditoriali classici: l’imprenditore culturale di turno, che fosse pubblico o privato, elaborava o più spesso tratteggiava un progetto, assumeva il «personale» che riteneva adeguato e lo metteva a operare. Tutto questo è stato sconvolto prima dalle innovazioni tecnologiche intervenute nei processi del lavoro, poi dalla crisi. Oggi i lavoratori della cultura vivono una condizione di precarietà costante, e sono coscienti che sempre più spesso il lavoro che intraprendono è creato e auto-organizzato attraverso filiere e reti «proprie». Doc(k)s vuole essere parte di questo processo, vuole cioè promuovere cooperazione tra questi soggetti che fanno della ricerca dell’indipendenza la loro pratica di vita quotidiana.