Il segretario del Partito è il segretario del Partito, e come tale ha la fiducia assoluta del vero militante. Questo è il sentimento che domina fra le centinaia di persone che attendono di accedere al padiglione uno del Lingotto di Torino. Molti capelli bianchi gareggiano per testimoniare la totemica fedeltà al capo, qualunque cosa esso faccia. Ma non in virtù di un cieco fideismo, bensì perché il segretario è espressione di un processo democratico, e in quanto tale può essere contestato, ma fino a un certo punto, ma non defenestrato.

Lo spiega il signor Giuseppe Conte, anni ottantaquattro, al suo attivo tutte le tessere del Partito dal 1948 in avanti: «Si chiama centralismo democratico, e per me significa avere regole. Che io rispetto». Si aggira nella ex fabbrica, elegantissimo, con un fazzoletto rosso nel taschino e un cartone dove, di suo pugno, ha vergato ogni tipo di improperio alla volta dei «traditori»: D’Alema, Bersani e Speranza. Si potrebbe pensare ad un isolato fenomeno pittoresco, ma il sentimento di quest’uomo è radicato nell’elettorato che ha fiducia non nella figura di Renzi tout cout, bensì in quella del segretario-capo.

Anche Atonio Ricci, manovale, poi operaio, poi capocantiere, poi direttore di progetto su grandi opere, il tutto in quaranta anni di lavoro bestiale, ha piena fiducia nel segretario Renzi. «Tutti questi partiti della sinistra non vanno bene. Un partito ci deve essere a sinistra: basta. Chi se ne va non è di sinistra, chi contesta sempre non è di sinistra», dice. La vicenda di Consip? Gli intrighi che coinvolgerebbero il padre del segretario del Partito? «Tutte falsità e storie inventate per danneggiare Renzi», dice. E così via, perché lo zoccolo durissimo qui al Lingotto non è rappresentato da coloro che siedono nelle prime file: uomini e donne eleganti, curati, dall’andamento vagamente rampante. Sono coloro che siedono dalla sesta fila alla trentesima: vestiti modestamente ma con cura, smartphone in mano e lunga militanza alle spalle.

Marco Titli, giovane capogruppo di circoscrizione a Torino del Partito Democratico, si trova anagraficamente al polo opposto di coloro che hanno collezionato nei decenni le tessere del Pci. Al termine del comizio renziano commenta: «Ha vinto Keynes. Renzi non ha mai promesso riduzioni fiscali, ma interventi per la cura della persona, la cura del territorio, per la cultura e per i più deboli». Laurea in economia e commercio, Marco Titli vede in Matteo Renzi «una persona che ha accusato una bella batosta, e si vede. Si deve capire se è in grado di ripensare se stesso: lo farà solo se aprirà il suo potere ai militanti del Partito Democratico».

I sostenitori che si assiepano sono circa mille in una sala non grande della vecchia fabbrica, oggi centro commerciale e poco più. E molti di essi ricordano anni lontani dove, tra queste pareti, spesero dure vite operaie: oggi battono le mani quando il segretario tocca tasti sensibili della fu Torino del lavoro. Il passaggio sull’etimologia del termine fondante della sinistra, «compagni», li emoziona; così come il lavoro, l’uguaglianza dei punti di partenza, la sanità pubblica e soprattutto il concetto di futuro.

Matteo Renzi, evidentemente, sa con chi sta parlando, sa che non c’è bisogno di show all’americana a Torino: ben altri valori vengono titillati, così da indurre una forte emotività. Che si manifesta attraverso un vero assalto al corpo del capo, che viene raggiunto, toccato, fotografato. Lui ci sta, si vede che gli piace essere amato, adorato, desiderato. Gli piace fare battute, stringere mani all’americana, dire una cosa qualsiasi a chiunque per catturarne immediatamente non solo il consenso, ma la fiducia. Il segretario parla per oltre un’ora, a tratti fa qualche battuta strappando sorrisi, soprattutto quando attacca, ma senza eccessi, l’avversario politico definito «il partito algoritmo».

E’ in quel momento che il militante democratico sente l’orgoglio della militanza storica, quella che arriva da anni, o anche decenni, di riunioni, baruffe e votazioni: e applaude fino a spellarsi le mani. Ma nessuno ha nostalgia di tempi andati: l’unico nome che arriva dal passato, che viene sussurrato sommessamente, dando così l’impressione di non voler bestemmiare, è quello di Enrico Berlinguer. Il militante democratico renziano, anche se non l’ha conosciuto, pare avere una sincera venerazione verso quel segretario. E nel giovane Matteo Renzi vede il successore: di questo, chi è seduto tra le file del Lingotto ne è pienamente convinto.

Il segretario finisce il comizio alle sette di sera, dopo sessanta minuti di parole ininterrotte: è fresco come un rosa. Scende tra il suo popolo, e il corpo del capo viene nuovamente preso d’assalto.