«Da quando gli uomini esistono, il lavoro ha occupato sempre la vita della maggior parte di loro»: così scriveva nel 1948 Lucien Febvre, uno dei protagonisti della rivoluzione storiografica del Novecento. Fra i più grandi storici francesi, aveva insegnato qualche anno nei licei e, ottenuta nel 1911 la tesi di dottorato, era entrato all’università, prima a Besançon e Digione poi, dopo aver combattuto nella guerra, nella Strasburgo riconquistata. Nel 1929 aveva fondato, con Marc Bloch, la rivista «Annales», tuttora pubblicata, e dal 1933 gli fu assegnata una cattedra parigina presso il prestigioso Collège de France.

Storico modernista celebre per i suoi studi sull’età del Rinascimento e della Riforma, Febvre non è solitamente identificato con la storia del lavoro, bensì con la storia economico-sociale, la geografia storica e la storia della cultura (si vedano in proposito le pagine introduttive di Angelo Torre alla riedizione della raccolta Problemi di metodo storico, Torino, Einaudi 1992). Si deve al curatore Fabrizio Loreto, docente a Torino e presidente della Società italiana di storia del lavoro (SISLav), l’assemblaggio di quattro contributi in un piccolo ma densissimo libro: Lucien Febvre, Lavoro e storia. Scritti e lezioni (1909-1948) edito da Donzelli, (pp. 121, euro 18).

L’INTRODUZIONE di Loreto ben chiarisce l’itinerario dello storico di Nancy, con il trasferimento dell’interesse per i lavoratori dalla fase della militanza socialista a quella della professione storica. Il primo contributo, del 1909, è dedicato all’«influenza» di Proudhon sul «sindacalismo» francese, cioè sulle forme originali assunte dall’organizzazione operaia in Francia, dominata in quegli anni dalla prima Cgt (Confédération générale du travail), che professava una spiccata autonomia di classe, su posizioni rivoluzionarie, per il superamento della distinzione fra politica ed economia, cioè fra partito e sindacato, propria del modello socialdemocratico tedesco. Al di là dei contenuti specifici, il saggio contiene lezioni di metodo e mette in guardia dalle facili connessioni fra «mondo delle idee» e «campo dei fatti».

Se Febvre invita a interrogarsi comunque su genealogie e filiazioni intellettuali, decisa è la sua critica al presunto rilievo storico delle «idee diffuse»: la trasformazione sociale è «lenta», «oscura» e non si deve ai testi dei teorici o all’azione di grandi personalità, ma a un processo storico collettivo – ad esempio sono la tradizione rivoluzionaria e le forme organizzative pregresse a spiegare la formazione della specificità del movimento operaio in Francia.

DEDICATE proprio a quest’ultimo tema, anche le quattro lezioni sul sindacalismo francese del 1919-1920 sono inedite in italiano, recuperate dalle carte dello storico da Jean Lecuir e pubblicate su «Le Mouvement social» nel 2012. Rappresentano, come la più drammatica Strana disfatta del suo sodale Bloch (stesa dopo il crollo militare francese del 1940, più volte edita in italiano), un modello esemplare di storia del presente, che liquida ogni presentismo mostrando il peso del passato nella costituzione delle dinamiche in corso.

A questi due testi, inediti per il lettore italiano, seguono due scritti da tempo noti. Nell’introduzione alla Storia del movimento operaio dell’amico Édouard Dolleans (1936) Febvre celebra la storia dei lavoratori, distinta da quella del lavoro, un’impostazione che in Italia era valorizzata da Luigi Dal Pane, e per scriverla propone un «triplice punto di vista» tuttora da rimeditare: «strutture socialì», «psicologia dei movimenti collettivi» e «organizzazione» per la «conquista di un diritto nuovo». Da ultimo si ripubblica il ricchissimo saggio sull’idea di «lavoro», un’altra lezione di metodo, ancora una volta vicina alla sensibilità di Bloch: operazione preliminare a qualsiasi ricerca è la ricostruzione della storia delle parole degli agenti studiati e dei concetti di chi li studia (dizionari non sempre agevolmente distinguibili), contro le facili continuità e linearità suggerite dalla persistenza dei termini.

NEL TRACCIARE la «sorprendente avventura» del lessico del lavoro, si risale fino all’Antichità (Platone e Paolo di Tarso), seguendo un’evoluzione che nel corso dell’Ottocento segna il passaggio da «maledizione» a «dovere sociale», da «tortura» a «occupazione». La «tendenza è precisa», riconosce Febvre, ma la mette subito in discussione, per insistere sulle «mille variazioni» e sui «mille incroci».

«La realtà, nel mondo contemporaneo, è la classe» scriveva Febvre nei suoi appunti per le conferenze parigine del 1920, mentre metteva nuovamente in guardia dalla sopravvalutazione di opinioni, idee e teorie, per lo studio delle situazioni concrete: un promemoria che resta attuale, non solo per gli studiosi di storia.