La storia della moderna considerazione della follia non comincia con Erasmo e non sta sotto il segno di Pluto, come pretendeva la follia stessa nell’Elogio del grande umanista, ma ha inizio con la rivoluzione antropologica della Riforma e sta sotto il segno di Saturno. È con Lutero infatti che la melancolia – nelle sue diverse forme: astenica, sublime o furiosa – diventa metafora della terrena condizione umana, subordinata al potere del diavolo e perciò universale e ineludibile.

Da questo momento in poi, la visione della follia si arricchisce di una speciale valenza simbolica, diventa materia di indagini sempre più raffinate e la sua rappresentazione invade la letteratura, dove i modelli antichi si piegano a metamorfosi di enorme significato. Negli undici capitoli del suo ultimo libro, Follia e letteratura, storia di un’affinità elettiva (Carocci, pp. 269, euro 25,00), Guido Paduano offre un’analisi quantomai densa e penetrante delle grandi follie letterarie fra antico e moderno: dal teatro di Dioniso al Novecento, come recita il sottotitolo del volume.

L’intero canone maggiore della follia letteraria vi viene passato in rassegna: dalla follia tragica di Aiace, Eracle e Penteo a quella comica di Filocleone e Cnemone, dalla melancolia rivelatrice di Don Chisciotte a quella simulata di Amleto (e, poi, dell’Enrico IV pirandelliano), dalla mania sublime di Achab all’idiozia eversiva del principe Miškin e del Parsifal wagneriano, alla pazzia cupa e nichilista dei più oscuri racconti di Maupassant passando per le «grandi follie» del melodramma e per le analisi acute e audaci della pazzia di Lear, del Lenz di Büchner e del Monaco nero di Cechov.

L’idea che orienta il libro è esposta in forma concentrata nella brevissima prefazione che apre il volume: la follia, secondo Paduano, lungi dall’essere un tema come un altro, riveste un significato centrale nella letteratura occidentale poiché a partire dal dissolvimento delle relazioni sociali che caratterizza la condizione del pazzo rinvia alla dimensione eminentemente individuale dell’opera d’arte e al tentativo, in essa sempre compreso, di «mettere ordine nel caos».

La follia porta dunque nella letteratura il linguaggio del disordine e, al contempo, la sfida che l’opera d’arte sempre affronta cercando di organizzare la sfera alternativa del suo mondo. Ma soprattutto essa corrisponde al linguaggio figurato dell’arte: se questo – scrive ancora Paduano – è eminentemente metaforico, ovvero segnato dall’alterazione del «rapporto funzionale (…) tra segno linguistico e referente», allora questo linguaggio corrisponde idealmente ai modi di significazione della follia che Büchner poteva definire, descrivendo la pazzia del suo Lenz, come «un impulso sconfinato a trascinare in relazioni arbitrarie nella sua mente tutto ciò che gli stava intorno».
Follia e letteratura sarebbero, insomma, le due facce – umile l’una e geniale l’altra – della stessa decostruzione e ricostruzione immaginativa del mondo nel medium di un linguaggio irriducibile all’ordine comune o consueto. Non per nulla la rappresentazione della follia è tema metaletterario per eccellenza, o meglio meta-artistico tout court. È infatti l’organizzazione del non senso a contraddistinguere l’opera d’arte.

Come osserva ancora Paduano in una delle pagine dedicate alle eroine folli del melodramma, se è vero che la prevalenza del significante sul significato caratterizza l’esperienza estetica in generale è vero anche «che la sua associazione con la capacità del folle di avere accesso a linguaggi alternativi all’ordinaria comunicazione sociale ci porta a concludere che ciò a cui si rinuncia non è il senso, ma piuttosto i suoi limiti, le sue parzialità, le sue imperfezioni, dando forma positiva al topos dell’ineffabilità».