L’orfanotrofio dove cresce l’arte
Parla Elide Cabassi, artista italiana che vive in Russia, dedicandosi alla sua pittura che guarda alle icone bizantine e ai paesaggi sterminati. Lavora insieme ai bambini con disagio per guarirli dalle loro ferite Prima e unica pittrice italiana a vivere e lavorare in Russia da quasi trent’anni, Elide Cabassi coniuga le tradizioni artistiche dei due paesi in un’opera risolutamente libera e contemporanea. Non […]
Parla Elide Cabassi, artista italiana che vive in Russia, dedicandosi alla sua pittura che guarda alle icone bizantine e ai paesaggi sterminati. Lavora insieme ai bambini con disagio per guarirli dalle loro ferite Prima e unica pittrice italiana a vivere e lavorare in Russia da quasi trent’anni, Elide Cabassi coniuga le tradizioni artistiche dei due paesi in un’opera risolutamente libera e contemporanea. Non […]
Prima e unica pittrice italiana a vivere e lavorare in Russia da quasi trent’anni, Elide Cabassi coniuga le tradizioni artistiche dei due paesi in un’opera risolutamente libera e contemporanea. Non solo. Nel 2011, fonda nell’orfanotrofio La nostra casa di Mosca un laboratorio d’arte italiano dove risveglia la creatività di bambini affetti da disturbi psichici con una pedagogia centrata sulla bellezza. E che fa già storia. L’abbiamo raggiunta nella capitale russa in occasione della sua mostra Luoghi di confine al museo statale – Centro Culturale Integrazione A. N. Ostrovskij.
Nata nel 1963 in Val Trompia, cresciuta nel Piemonte contadino, formata artisticamente in Toscana, un lungo percorso l’ha portata fino a questa mostra. Quando ha capito che voleva esser pittrice?
Sin da piccola, ho avuto una fortissima attrazione per la bellezza della natura e dell’ambiente in cui crescevo. Ho sempre disegnato. Mia madre, sarta con grandissimo senso estetico e profonda cultura interiore, mi stimolava e mi spingeva a inviare i miei disegni a uno zio pittore. Ma la mia vocazione si è realmente manifestata all’Accademia di belle arti di Firenze, grazie all’incontro con uno degli ultimi maestri del novecento italiano, Goffredo Trovarelli. Ho capito allora che non potevo essere che pittrice. Dipingere è per me come un atto sacro. Coinvolge tutto il mio essere e anche il mio modo di vivere. La mia pittura ha bisogno di vita semplice, ascetica, severa, solitaria, fatta di poche cose. È una pittura sempre sul confine, dove s’incontrano gli opposti, terra, cielo, luce, tenebre, è come una vibrazione, che negli ultimi quadri riguarda soprattutto il confine tra la vita e la morte, e il nostro rapporto con l’invisibile. Ho dedicato la mostra alla mia famiglia. Sono molto legata alle mie radici italiane. Col mio trasferimento in Russia, l’unione tra le mie antiche e nuove radici ha portato la pittura verso immagini che sono come un abbraccio delle due culture.
Lei si è stabilita a Mosca nel 1992: cosa cercava?
Volevo ritrovare l’anima russa, la natura, il paesaggio e le grandi icone che avevo scoperto durante il mio anno a Mosca con una borsa di studio nel 1987-’88. Mi aveva colpita l’aspetto mistico, profondo, ancora molto legato al valore simbolico della vita di questo popolo. C’è qui un modo viscerale di vivere l’arte, le persone se ne fanno letteralmente attraversare. Emblematica dell’anima russa, la poesia potentissima di Marina Cvetaeva, mi era allora indispensabile. Di lei mi affascinavano il coraggio, la libertà, e l’impeto, che corrispondeva al mio di quegli anni. Nel 1994 feci una mostra – Il paese dell’anima – proprio nella sua casa-museo, a Mosca. Opere dedicate a lei, nella dimora della sua infanzia.
Com’è cambiata la sua arte dopo il suo arrivo in Russia?
È diventata più calma. Ho ripreso i colori a olio, che avevo abbandonato per l’acrilico, e le diverse mostre che ho fatto nel Nord della Russia mi hanno introdotta al suo cromatismo. Il severo e laconico paesaggio russo mi ha anche aiutata a liberarmi, aprendomi a un movimento più lento ed essenziale. Le icone russe mi hanno riportata alla profondità delle forme, strutturate come sono in modo geometrico, per certi versi vicine all’arte astratta. In più, vi ho anche ritrovato il nostro Trecento e Quattrocento, e soprattutto quella vena bizantina persa da noi col Rinascimento. Una cultura immensa e profondissima, che le icone mi hanno fatto riscoprire, come se si chiudesse un cerchio…
Durante i bombardamenti americani dell’Iraq ha dipinto «Barriere» e quando i russi hanno bombardato la Cecenia ha realizzato «Rosso inverno», facendo della sua pittura una forma sublimata d’impegno politico. Lei stessa ha definito la sua arte come una «politica della bellezza». Cosa intende?
Se si considera che il degrado della bellezza ha sempre accompagnato quello della vita civile, la politica della bellezza consiste nel salvare quest’ultima dentro di sé e in tutto ciò che si fa, riuscendo così a recuperare un pezzo di mondo. Propongo la mia visione, e il pubblico la vive come un’oasi, nel senso di luce, trasparenza, silenzio. Rispondendo a una necessità umana molto forte, la bellezza ha un senso etico oltre che estetico. Corrisponde a un cammino interiore.
Ne «Il sacrificio di Ifigenia» la bellezza appare sospesa tra immolazione e resurrezione. Cosa l’ha portata a interessarsi a questa figura?
Ifigenia rappresenta la bellezza pura e vulnerabile al tempo stesso. Il suo corpo di bambina tutto bianco con quel cordoncino rosso, si può ferire in qualsiasi modo, ha le mani legate, è incapace di difendersi. In questo corpo immolato, c’è tutta l’umanità fragilizzata dal sacrificio della sua parte migliore. Ci sono i migranti che muoiono annegati, le donne violentate… La vulnerabilità umana mi tocca profondamente, è anche legata a un episodio della mia infanzia. Avevo cinque anni, mia madre, già ammalata e debolissima, urtata da un cane, cadde davanti a me. Ho sentito allora tutta la fragilità dell’esistenza e l’impotenza di non poterla aiutare a rialzarsi. Questa sensazione di esser minuscola davanti alle grandi sofferenze della vita continua ad accompagnarmi. La sento viva anche con i bambini dell’orfanotrofio. Davanti al loro destino tragico, faccio tutto il possibile, ma so che sono segnati per la vita.
Fondare un laboratorio d’arte in un orfanotrofio per bambini affetti da disagi psichici non è molto comune per un’artista né a Mosca né altrove. Come le è venuta l’idea?
Il mio scopo è sempre stato quello di portare la bellezza dove ce ne fosse più bisogno. E, attraverso di essa, offrire ai bambini un metodo e gli strumenti per aiutarli a vederla e a crearla a loro volta. Dopo anni di ricerche, ho trovato l’orfanatrofio giusto: il direttore ha creduto nel mio progetto, concretizzato poi grazie al sostegno degli italiani di Mosca, all’associazione femminile Asi e a diverse imprese e privati che continuano a collaborare. Questo laboratorio è unico nella storia della Russia, anche perché aggrega italiani e russi per portare la gioia in un luogo di sofferenza. È uno spazio creato appositamente per il benessere, composto di materiali naturali, oggetti, musica, giochi, libri, tutto ruota intorno al perno della bellezza. I bambini vi s’immergono con grande piacere. Mi prendo del tempo per seguire ognuno di loro personalmente. Sono la maestra silenziosa che facilita la loro creatività, dando loro tutto quello di cui hanno bisogno. Così, si sentono ascoltati e liberi di esprimersi senza barriere. E se con certi bambini, troppo feriti o ammalati, il lavoro resta difficile, con molti altri i risultati sono incoraggianti.
Lo dimostra l’esposizione dei suoi allievi intitolata, appunto, «Dipingere la bellezza», che lei ha voluto in parallelo alla sua…
Sì, un bambino come Ruslan, per esempio, è stato letteralmente salvato dal manicomio dalla sua passione per l’arte. L’aver imparato a dipingere e disegnare ha stimolato la sua guarigione, tanto che da quattro anni non prende più medicine. Lo seguo sempre da molto vicino. E credo che sia valsa la pena di aver creato questo laboratorio anche solo per lui.
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