Se si capita a Venezia per la Biennale Arte, vale la pena fare una deviazione dai percorsi canonici e fare un salto alla Giudecca, precisamente al Molino Stucky, atrio interno, Fondamenta San Biagio 812 (il Molino Stucky è, tra l’altro, un posto con una storia interessante). È qui che l’artista multimediale Alessandro Valeri ha messo in campo un’operazione particolare, con la guida di Raffaele Gavarro e un titolo suggestivo, Sepphoris (www.sepphorisproject.org).

Si tratta di una installazione aerea di quindici appunti fotografici, completati da interventi pittorici, su tele di grandi dimensioni (tre metri per tre), più un video (dell’artista, parte integrante del progetto). L’installazione si avvita verso l’alto nella cavità dell’edificio per 25 metri, come una spirale, lungo i piani della struttura residenziale, suscitando il senso di una intrusione – ma allo stesso tempo, la possibilità di una rivelazione – in uno spazio comunque intimo.
Il nome rimanda a una reminiscenza geografica ed emozionale. Tutto nasce a Sepphoris (Zippori), vicino Nazareth, in Galilea, da una visita dell’artista nel 2011. La serie fotografica di Valeri ha come oggetto la rappresentazione dell’orfanotrofio locale, dunque dello spazio e della vita dei bambini lì presenti, la cui cura è portata avanti – da anni – dall’Ordine delle Figlie di Sant’Anna, assieme a loro collaboratori, all’interno di un moshav, in una parte alla fine prevalentemente abitata da arabi musulmani.

Nello specifico, data la posizione geografica, si può dire che si parla di qualcosa di molto speciale: i bambini, orfani o con situazioni familiari critiche, sono lì senza distinzione di etnia o religione, così come il medesimo orfanotrofio vede la presenza di operatori tanto cristiani, quanto ebrei e musulmani (un vero esempio di una coesistenza pacifica).
Sepphoris di Valeri e Gavarro si presenta così in maniera duplice, coerente con l’idea di un’arte autenticamente dialettica e che abbia come finalità l’intervenire in un certo stato delle cose. Un lavoro – il loro – che sembra articolato in sottrazione per produrre trasformazione.

Sul piano dell’installazione, il progetto tocca una espressività senza orpelli. Funziona: non è didascalico, ma elegante ed efficace. E agisce come un gesto di trasformazione radicale – benché momentanea – della vita dello spazio attorno. Su quello dell’azione, il gesto mantiene la sua radicalità.

Le opere sono state donate all’Ordine, senza passare per mediazioni, così che i ricavati possano essere direttamente utilizzati da chi lavora all’orfanotrofio per la vita dello stesso istituto. Un atto che sottrae l’opera all’autore e, quindi, la trasforma, nel tentativo di operare una mutazione significativa dentro la realtà a cui si indirizza. Un’azione, quindi, decisamente politica.