È il futuro, il 2035. Dopo la crisi economica globale, gli Stati Uniti d’Europa sono sogno obbligatorio per chi non vi appartiene, sono la speranza disperata di un approdo, di un futuro, ancora. Ai margini, stremati, affamati, assetati, un uomo e una donna, Kurt (l’inglese Simon Merrells) ed Eva (la rumena Ana Ularu), sembrano due fantasmi vaganti in un deserto di pietra e polvere sotto un cielo indifferente. Due esseri umani. Anzi tre: sta per nascere un bambino. Sopravvivere sarà comunque vivere. Riescono a varcare il confine strisciando sottoterra ma finiscono presto in un centro di detenzione temporanea, perdono la libertà, li dividono. L’indice di sostenibilità, l’index zero, è il parametro per decidere chi può restare, come Kurt, e chi deve essere respinto, come Eva: la sua gravidanza non è sostenibile.

Si torna così, inusualmente nel cinema italiano contemporaneo, al futuro. «Ma non un futuro fantasy dove siamo diventati verdi e camminiamo al contrario, piuttosto uno scenario legato al nostro presente in cui ritrovare magari anche Lampedusa», precisa Lorenzo Sportiello, regista di Index Zero, girato in Bulgaria in lingua inglese, un lungo percorso produttivo piuttosto travagliato e a budget limitato che ha portato, alla fine, a un notevole esito espressivo. Film presentato fra le “Prospettive Italia” di un Festival di Roma quasi giunto a conclusione, lungometraggio d’esordio (poco più di 80 minuti) di Sportiello (qui anche co-produttore, infine, oltre a essere co-sceneggiatore, a curare i visual effects, a realizzare con Alex Campedelli le musiche), barese, classe 1978, alle spalle il Centro Sperimentale di Cinematografia e la regia di diversi cortometraggi, pubblicità, videoclip e della prima serie web italiana, Wannabe a Filmmaker, commissionata da MTV.

Un film di fantascienza umanista, definisce così il suo Index Zero.

Sì, più del plot mi interessavano le emozioni dei personaggi e mi premeva lavorare soprattutto sul mood del film, dargli una personalità che potesse prescindere dalla storia. Credo che dovrebbe essere soprattutto questo il lavoro del regista, ciò che fa la differenza e che mi affascina di più. Il mio script, una storia in fondo molto semplice, avrebbero potuto girarlo cento persone diverse e ne sarebbero scaturite altrettante versioni.

Ci troviamo, di certo, di fronte a un film molto personale ma con diverse ascendenze.

Le influenze sono tantissime, ma indirette. Potrei citare una serie televisiva come Black Mirror, anche se non c’entra niente col mio film. Ma più vicini, anche se non voglio addentrarmi in paragoni, sento film come The Road di John Hillcoat e, soprattutto, I figli degli uomini di Alfonso Cuarón, in cui per la prima volta ho ritrovato esattamente il futuro molto “sporco”, concreto, realistico che a me interessava. Poi sarebbe arrivato anche District 9 di Neill Blomkamp, mentre molti anni prima c’era già stato Terry Gilliam con L’esercito delle 12 scimmie.

Già, ma nel suo caso, c’è un lavoro consapevole anche sul linguaggio, che elabora i sentimenti del film.

C’è chi probabilmente avrebbe girato una storia di questo tipo con super carrelli per dimostrare la propria bravura, ma credo che ogni momento abbia la sua esigenza. Certo, gli effetti speciali sono tanti, ma nascosti bene. Nella prima parte era necessaria una regia molto nervosa, a mano, di disagio, perché il momento dei due protagonisti è quello proprio dell’ avventura, della difficoltà, poi nella parte centrale diventa un altro film ancora, di reclusione, con più camere fisse, opprimente, con l’ossessività del controllo, della gabbia del sistema rispetto a chi è rinchiuso; nel finale tutto diventa un po’ più sospeso perché cambia il centro del racconto, più poetico e intimo.

Crede che la fantascienza cinematografica recente abbia creato in qualche modo nuovi immaginari, preconizzato nuovi scenari politici?

La fantascienza negli ultimi anni ci prepara alla resistenza, alla rivoluzione, accade anche nel mio film, del resto. Certo, non è una tematica nuova per il genere ma ci sono stati cambiamenti significativi. Anche film di fantascienza per ragazzini, come Hunger Games, contengono tematiche politiche, rivoluzionarie, molto esplicite, forti, con storie più o meno incentrate su un grande governo fascista che vuole irreggimentare tutti. Mi interessa molto questo aspetto, perché è generalmente inusuale per certi target. Certo, ci sono le strategie delle major, ma forse c’ è in un certo senso il prepararsi degli Stati Uniti a un qualcosa di più forte che tenterà di conquistarli. Prima, nei loro film, erano una grande potenza minacciata dal cattivo, piccolo e venuto da chissà dove. Oggi sono piccoli e buoni, ma c’è qualcuno più grande che vuole opprimerli.

Essere sostenibili, che vuol dire?

È un concetto che ho cercato di portare alle estreme conseguenze, per rovesciarlo, in qualche modo, dentro una prospettiva diversa, perché mi sembra che nella nostra società, nel nostro presente, fatto di comunicazione in continuo movimento, sia in realtà molto semplice convincere grandi masse di persone con la superficialità di concetti positivi che funzionano benissimo. Spesso sui social non solo non si verificano le fonti delle notizie ma ci si ferma solo alla lettura dei titoli, in una sintesi ultra semplificata. Mi pare che una cosa analoga avvenga in un certo senso anche con quella che viene chiamata sostenibilità. Mi piacerebbe che le persone fossero più coscienti, più aperte al dubbio e all’approfondimento.