L’avvertenza, cordiale ma ferma, è che della politica politicante non vuole parlare. La sente, spiega, «come cosa lontana, faccio delle riflessioni, le scrivo, le rileggo e capisco che sono profondamente inattuali». Ma Fausto Bertinotti è la primo volto che viene in mente al combinato disposto delle parole ’sinistra’ e ’scissione’, ’centrosinistra’. Presidente della camera dal 2006 al 2008, poi leader della sinistra arcobaleno azzerata dalla vocazione maggioritaria. Ma prima segretario dal ’94 di Rifondazione comunista, quasi per imposizione del fondatore Armando Cossutta. Quel partito da lì ha infilato una serie di scissioni a destra e sinistra (anche Cossutta nel ’98 lo lasciò), fra sostegno e rotture con i governi di centrosinistra. Fino alla scissione della scissione, quella dei nostri giorni fra due uomini che gli sono stati vicinissimi: Nichi Vendola, a sua volta scissionista e fondatore di Sel; e Gennaro Migliore, ora vicino al Pd renzista. Una storia, e le scelte che hanno portato tutta la ’sinistra sinistra’ fino a qui – non in condizioni smaglianti – è storia di un’intera comunità. Lo incontriamo al quarto piano di un bel palazzo della Camera, sede di una fondazione che a settembre chiuderà i battenti. Tempi duri. E non solo causa spending review.

Presidente Bertinotti, lei sostiene ormai da anni che la sinistra non esiste più. Allora perché la sinistra continua a dividersi?

Questa divisione già dimostra che non c’è più. Quando c’era si chiamava ’scissione’. Si poteva persino evocare, lo fece Gramsci nel ’21, ’spirito di scissione’. C’è scissione se c’è, lo dico con Togliatti, ’rinnovamento nella continuità’, l’idea che da un albero può spezzarsi un ramo e rimettere radici. Ma se non c’è continuità non c’è neanche rinnovamento, e allora la divisione è un esodo, una fuoriuscita. La storia della sinistra e del movimento operaio in Europa si è chiusa in tre cicli: la sconfitta del 900, riassunta nel crollo del Muro di Berlino; il Dopoguerra delle costituzioni democratiche, dei partiti e dei sindacati di massa, che termina con la sconfitta degli anni 80. Di qui, siamo al terzo ciclo, quei partiti si candidano a governare la modernizzazione. È il centrosinistra, una condizione ambigua e anfibia di cui in parte circola ancora l’eredità. Muore sepolto dalla nascita del capitalismo finanziario e dell’Europa reale, una tenaglia ne cancella le ultime tracce. E i partiti eredi completano la loro mutazione genetica. Erano i partiti dell’alternativa di società, diventano i partiti dell’alternanza di governo.

Renzi rappresenta il compimento di un ciclo o una ripartenza?

Renzi è un fenomeno importante. A sinistra abbiamo un tic, non accettare che i nostri avversari siano forti. Ricordiamo un vecchio carosello con Ernesto Calindri e Franco Volpi: si vedeva un aereo che volava, era la modernità, Volpi scuoteva la testa e diceva: ’el dura minga’. Renzi avvia una nuova fase: l’egemonia di una cultura postmoderna e postdemocratica, una gigantesca costruzione ideologica che copre come una coltre una realtà sfrangiata e devastata. Renzi è il portatore naturale della politica funzionale di questo nuovo ciclo, quello della governabilità come elemento totalizzante. La sua Weltanschauung è ’vincere e governare’, contro chi e per fare cosa non importa. Siamo alla morte delle famiglie politiche europee. I socialisti perdono ovunque. E invece Renzi che socialista non è – lasciamo stare la scelta governativa di aderire al Pse – non essendo socialista vince. Perché sceglie la trasversalità. È coevo a questo tempo, quello che ha sostituito lo scontro fra destra e sinistra con quello fra l’alto e il basso che noi imperfettamente chiamiamo populismo. E perché Renzi è fortissimo? Perché la sua trasversalità fonda il populismo dall’alto. È un Giano bifronte: per un lato populista, per l’altro è neobonapartista, cioè usa il populismo per plasmare il governo dall’alto. L’esito è neautoritario: un governo che si presume così, asettico, obbligato nelle scelte e privo di alternative, ’naturale’.

Eppure Renzi si presenta come un uomo di sinistra. E così viene percepito da molti suoi elettori.

No, non è vero. Persino la sua retorica è accuratamente trasversale, tanto che può permettersi alcune citazioni di sinistra. Il caso più clamoroso è l’adesione al Pse: i vecchi del Pd hanno disputato per anni se aderire o no. Era una discussione ridicola, caricaturale, ma le vecchie famiglie ancora confliggevano. Spazzate via queste famiglie, lui può aderire al Pse senza subirne il ricasco definitorio. Renzi non diventa socialista, è il partito socialista europeo che diventa renziano. La sua è un’uscita dalla storia socialista per presa d’atto della sua conclusione. Così restaura le feste dell’Unità: nessuno può accusarlo di essere comunista. Né democristiano. È trasversale.

Questa trasversalità assorbe tutto il campo della politica? A suo parere non c’è spazio per altro?

Alfredo Reichlin gli ha offerto la formula ’partito della nazione’. Ma, lo dico con rispetto, è una citazione del mondo antico. Il suo è il ’ partito del governo’. Non al governo, né di governo. La sua è una vocazione totalitaria in sintonia con questo capitalismo totalitario che ha l’ambizione di conquistare tutti al principio della competitività.

Lei, negli anni 90, è stato il fondatore, poi anche l’affondatore, dell’idea di una sinistra del centrosinistra. Non c’è più una sinistra che possa ambire a una dialettica con questa ’trasversalità’?

No, se resta nel recinto. Quel tentativo di mescolarsi è stato sconfitto. Allora c’erano due sinistre che si misuravano con la globalizzazione, con due idee opposte. Per capirci: governabilità contro altermondialismo. Era l’ultimo stadio della storia di quella sinistra, e la Rifondazione comunista era l’ultima ipotesi revisionistica. Fallita per la sconfitta e la mutazione genetica, e per il cambiamento radicale della scena prodotto dal capitalismo finanziario globale.

Posto che i vincitori hanno sempre le loro colpe, quali sono le colpe degli sconfitti, le vostre?

Le occasioni mancate. In Italia – e sto sulle ultime, non parto dall’XI congresso del Pci come farebbe Pietro Ingrao – sono almeno tre: lo scioglimento del Pci poteva essere diverso, qualche recriminazione di Occhetto che chiedeva innovazione nella tradizione aveva nuclei di verità; lì una comunità si smembra. Seconda occasione mancata, il movimento altermondialista, nel 2000 – 2001. Lì c’è il primo smacco del centrosinistra: all’avvio della globalizzazione e alla nascita dell’Europa di Maastricht neanche il tentativo timido ma interessante di Jospin viene sostenuto. Il centrosinistra italiano è tra i responsabile dell’uccisione di quel tentativo. E noi, poco dopo, e cioè all’avvento del movimento altermondialista, manchiamo l’ultima occasione, quella di devolvere ciò che era rimasto della sinistra di alternativa in quel movimento.

Lei era già il teorico del partito a rete. Sta dicendo che avrebbe dovuto fare di più, sciogliersi?

Avremo dovuto capire che il mondo dei partiti tradizionali era finito. E buttarci nel nuovo emergente orizzonte anticapitalista.

Rinunciando definitivamente all’idea repubblicana di una moderna democrazia dei partiti?

Avremmo dovuto reinventarci. I partiti attuali sono organizzazioni di ceto politico all’americana, che vive la stagione elettorale per la sola rappresentanza nelle istituzioni. E quelli così fatti, qualunque sia la loro collocazione, sono interni a un sistema neoautoritario in cui il governo è tutto. Persino Grillo che ha avuto la giusta intuizione che il sistema politico si abbatte e non si riforma, oggi viene catturato dalla logica di governo, per essere presentabile e per far parte del gioco politico .

Il sistema si abbatte da destra, nel caso di Grillo.

No, dal basso. Grillo è un sistema autoritario che tuttavia dà voce al conflitto dal basso. Così il Front di Le Pen e le formazioni populiste che intercettano il conflitto fra popolo e élite. La sinistra non c’è se non nasce da questo conflitto. Quella che pensa di rinascere nel recinto prenda atto che il recinto soffoca.

Nonostante i suoi certificati di morte, lei resta vicino alla sinistra che ci prova. Oggi a Tsipras, ieri a Ingroia. Lei è garantista: perché sosteneva un giustizialista?

Non avevo nessuna fascinazione per Ingroia, e non credo per niente a queste strade. Tuttavia se i miei parenti ci riprovano non mi metto contro. Li voto affettuosamente.

Così anche la lista Tsipras?

Qui ho un elemento in più. Tsipras mi intriga non per la nostra vicenda italiana ma perché indica una ricostruzione su scala europea invece che dalle prigioni nazionali.

Tsipras non corrisponde al suo modello: non è ’fuori dal recinto’. È un politico capace di aprire confronti con la socialdemocrazia.

Mi prende su una corda scoperta, le similitudini con una certa Riforndazione sono evidenti. Ma c’è una differenza: da dove viene Syriza? Nessuno mi dica che viene dalle formazioni precedenti alla grande rivolta. Il Synaspimos, da cui viene parte di questo gruppo dirigente, guadagnava a fatica il 2 per cento. Syriza ora veleggia verso il 40. Non mi si dica che c’è una parentela.

Il Synaspismos è uno dei padri, uno dei partiti della coalizione della sinistra radicale greca.

Anagraficamente sì, ma Syriza è la dimostrazione che la sinistra può nascere solo dalla rivolta, non dalle costole dei vecchi partiti.

Torno ai suoi ’parenti’ e alle loro divisioni. Sia Vendola che Migliore sono suoi allievi, il primo anche erede di una leadership, la sua, con tratti di personalismo. Oggi si separano, ma restano entrambi convinti della possibilità di una sinistra del centrosinistra. Come spiega la distanza dal maestro?

Non direi maestro, direi che abbiamo condiviso una stessa comunità. Conosco due modelli di leadership politica: una che figlia per discendenza diretta, quando un allievo assume tutto di un maestro, atteggiamenti fisici inclusi; e una che figlia orizzontalmente, penso a Ingrao, Magri, Rossanda, i miei maestri. Si parva licet, nel caso di Nichi e Gennaro riconosco il tratto della mia direzione e qualche scampolo di me. Ma politicamente sono molto diversi. Quanto al resto, con un gruppo di amici psicoanalisti lacaniani sto lavorando a capire perché a sinistra si producono conflitti mortali diversamente dalle altre storie politiche. I socialisti e i democristiani fanno scelte opposte ma restano affratellati. Noi deflagriamo. Quando avrò una risposta le dirò meglio.

Se il treno della rivolta non passa, da noi non ci sarà più sinistra?

Ne passerà un altro. Intendiamoci, per me rivolta è rottura: Occupy Wall Street, indignados, Grecia. Anche le primavere arabe: forme di lotta dal basso senza partito e senza leader che costruiscono nuove istituzioni, al di là dell’esito. L’altro fondamento è la coalizione sociale, le tessiture extramercantili di conflitti, autonomia, autogestione, autogoverno. Il riferimento è a fine 800 inizi 900: atelier parigini, Iww negli Stati uniti. Forme di contestazione fuori dalla tradizione organizzata. Oggi in Italia i No Tav ma anche il Cinema America e il Teatro Valle di Roma, le 160 aziende autogestite, i 200 scioperanti della Maserati. Rivolta è ciò che dal basso promuove conflitto contro le élite e si manifesta come irruzione di energia e di forza.

È una rivolta nonviolenta?

Lo spero, dipenderà dalla reazione delle classi dirigenti. Io credo che ci siano le condizioni culturali perché possa esserlo. La rivolta non è per forza maieutica della sinistra. Ma è il punto di rottura necessario. Come nel ’48, e in quella cosa straordinaria e magica che fu la Comune di Parigi.

Lei per primo guidò la sinistra radicale nelle primarie. Niente più primarie ormai?

Le primarie avevano un senso finché era ipotizzabile la riformabilità della sinistra politica. Oggi sono funzionali all’ordine nuovo neoautoritario del partito del governo. La verità è che noi che eravamo avversi al riformismo siamo stati gli ultimi a lavorare per salvarlo. E invece l’hanno ucciso. E si sono suicidati.