Nell’anno 1966 o ’67, non ricordo, mentre ero alla guida della Seicento di mio padre, fui fermato da un auto della polizia stradale. Mi contestarono un sorpasso azzardato fatto lungo un tratto in curva e per di più oltrepassando la doppia striscia bianca che separa le due corsie. Alla domanda di uno dei due poliziotti: «Lei che lavoro fa?», risposi con fierezza: «Sono uno studente del primo anno di Ingegneria». I due poliziotti si scambiarono un’occhiata compassionevole, poi uno di loro mi disse con aria paterna: «Ingegnere stia attento a guidare e non ripeta più questo gesto», lasciandomi andare senza alcuna contravvenzione. Ho raccontato questo episodio diverse volte per far rilevare come, a quei tempi, uno studente fosse coccolato, protetto e infine considerato come un bene comune dell’intero paese. Già perché era diffusa l’idea che l’università fosse un luogo sacro dove si preparava la futura classe dirigente dell’intera nazione. Insomma uno studente universitario godeva del rispetto e della stima di tutti come se, appunto, tutti, si sentissero partecipi della costruzione del futuro della nazione.

Pensavo a queste cose leggendo della disperazione di almeno due intere generazioni definite “antagoniste” che hanno partecipato alla giornata di protesta del 19 ottobre a Roma e riflettendo su e in che cosa si è trasformata oggi l’università italiana. Se la grande controffensiva liberista di questi ultimi venti anni fosse rimasta isolata nel campo dell’economia, avrebbe trovato nell’università una fortissima resistenza a penetrare per i conflitti esasperati che essa produce. Ma, paradossalmente, ha trovato proprio qui il suo più potente alleato, il terreno più fertile, l’accoglienza più insperata. Perché il Grande Racconto del neoliberismo si rivolge direttamente all’individuo, fa leva sull’affermazione individuale, sulla capacità dei singoli scoraggiando la loro cooperazione, sull’importanza del successo (sempre individuale) e del merito.

La cooperazione (fondamentale per la ricerca) tra ricercatori diventa pericolosa e inutile, vale di più scrivere in lingua inglese su riviste accreditate secondo i criteri dell’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca). Così la controffensiva liberista senza alcun bisogno di spargimento di sangue, senza alcun bisogno di atteggiamenti autoritari e senza alcun bisogno del rogo dei vecchi libri ha compiuto il suo delitto perfetto, è dilagata come un fiume in piena, a livello molecolare, dentro le cittadelle universitarie che gli hanno spalancato i cancelli d’ingresso, salutata come la fine del vecchio potere dei baroni. Non è stata la Gelmini (anzi…) a sconfiggere i baroni universitari, è stata l’egemonia liberista a declassarli al rango di vecchi strumenti di un potere già sconfitto, roba da rigattiere. Semmai la Gelmini e i suoi illustri predecessori al Ministero (a partire da Luigi Berlinguer) ne hanno solo facilitato la marcia trionfale; ma il gioco era già fatto.

Così, come profetizzava molti anni fa Remo Ceserani dalle pagine di questo giornale, l’università da comunità di studiosi si è progressivamente trasformata in compagine burocratica transnazionale. Qui si passano intere giornate a compilare moduli e questionari, a fare classifiche delle riviste più accreditate, a spiare il vicino di stanza per vedere se possiede un Vqr (Valutazione Qualità della Ricerca) più alto del nostro. Nel Politecnico di Milano si è tentato di eliminare l’odiosa lingua italiana a favore di corsi forniti direttamente in lingua inglese (tentativo almeno parzialmente fallito ad opera del Tar); sempre a Milano si è stabilito che un testo è credibile scientificamente se supera le 17.500 battute, e via dicendo.

E gli studenti?
Loro non si sono neppure accorti che il vecchio potere rappresentato dai baroni è stato da tempo sostituito da un più efficace e occulto potere che agisce molto più in profondità. Il sistema dei crediti, la presunta efficienza dei corsi, il sistema della valutazione, hanno introdotto a dosi omeopatiche, ma inesorabilmente, il pensiero unico di stampo europeo che consiste nel non dare più alcuna importanza a ciò che si studia, a come si studia e a tutte quelle sciocchezze che costituivano il fondamento dei saperi e a declassarli al ruolo di “clienti”. L’importante è superare l’esame, uscire da questo luogo infernale e continuare a sopravvivere nel mondo.

Un noto docente universitario ormai andato in pensione raccontava una storiella divertente, ancorché drammatica. Una volta fu avvicinato da uno studente che gli chiese: «Professore, mi dia un consiglio spassionato; conviene che faccia l’esame su Leopardi che vale 5 crediti o su Manzoni che ne vale 8?». Lui rimase un po’ perplesso, poi rispose: «Mi scusi, ma lei ha mai baciato una ragazza gratis?». Anche in questo campo la nota dolente è il comportamento della sinistra. Ha un’idea dei danni fin qui prodotti in un sistema universitario, una volta, tra i migliori del mondo? Ha un’idea di come tentare il processo di ri-costruzione a partire dalle macerie? La mutazione antropologica è iniziata da tempo ed è in fase piuttosto avanzata, occorre che chiunque abbia titolo per farlo inizi a disobbedire e a far valere le ragioni di un pensiero critico perché, fortunatamente, le contraddizioni del pensiero unico si stanno moltiplicando anche tra i sostenitori delle “nuove buone” ricette liberiste.