Con un tempismo perfetto per ricordarci che la siccità in California è veramente solo l’inizio, una palette di arancioni infuocati, neri oleosi e freddi blu notte, un ritmo che fa sembrare lenti i Fast and Furious e il peso specifico di un pianeta pieno di rottami arrugginiti come quello di Wall-e, Mad Max: Fury Road è atterrato a Cannes nemmeno un giorno prima dell’uscita in sala in moltissimi paesi del mondo. Comprensibile che Thierry Fremaux (e probabilmente la WB) non abbiano voluto affidare l’apertura a un esercito di kamikaze cannibali che inseguono un’Emperor Furiosa, vestita come un meccanico postapocalittico senza un braccio, che ha rapito un gruppo di ragazze angeliche seminude.

Certo, se avessero osato, sarebbe stato un inizio più entusiasmante di quello vissuto due ore in compagnia del giovane delinquente di La Tete Haute (che ha un po’ il look dei kamikaze cannibali, ma si fa addomesticare da Catherine Deneuve). Chiunque avesse temuto che George Miller, a forza di maialini parlanti (Babe va in città) e di pinguini ballerini (gli Happy Feet) si fosse rammollito può mettersi il cuore in pace. Mad Mad: Fury Road è crudo, crudele, visionario e radicalmente «altro» come i primi due film della serie (Interceptor, del 1981 e Interceptor: Il guerriero della strada, del 1985) ed è sicuramente meglio del terzo (Mad Max. Oltre la sfera del tuono, quello con Tina Turner, del 1989, che era un po’ stanco).

Trent’anni dopo aver dato vita a Max Rockatansky, poliziotto trasformatosi in barbaro vendicatore su ruote dopo che la sua famiglia e stata sterminata, il settantenne Miller dimostra di «possedere» questo universo distopico come Lucas possiede la Galassia e Peter Jackson la Terra di mezzo: il suo ritorno all’arido, sterminato, deserto della serie (tra Greed e il Russ Meyer di Motorpsycho e Faster Pussycat Kill Kill, solo che è attraversato dal Road Runner di Chuck Jones a cui tutta la franchise rende omaggio) ha un allure scellerato e un’agilità di movimento che ricordano il meglio della serie B. Più Tobe Hooper (l’eroe, trasformato in un sacco di sangue da trasfusione vivente, passa tre quarti del film dietro a una museruola di ferro) e il primo Wes Craven. Anche se questo è un film da oltre 150 milioni di dollari.

Esce Mel Gibson (ormai troppo vecchio per il ruolo, dopo un paio di tentativi sfumati di fare il film) ed entra l’inglese Tom Hardy, un Mad Max più introverso e meno «mad», ma non male, specie perché affiancato da Charlize Theron, nel ruolo di Furiosa. Il film apre con Max che addenta un geco parlante a due teste, una scena che sarebbe piaciuta a Giulio Questi.

Da lì è un’impennata di ottani che non diminuisce fino ai credits finali. Miller elimina quasi completamente «l’esposizione» che piace tanto a Nolan, il cazzeggio dell’ultimo Whedon, e l’iperabbodanza di valori produttivi che appesantisce la maggior parte dell’ action movie che si fa a Hollywood, asciugando il film in un inseguimento automobilistico di due ore, un po’ come Jackson ha «ridotto» il terzo capitolo di The Hobbit a una mega battaglia. Il suo un film snellissimo e barocco allo stesso tempo, una death race tra assemblaggi di ferraglie arrugginite (i kamikaze non sognano vergini ma un aldilà all’insegna del cromo) con il sistema di valori limpido del western classico.

Cinema digitale che celebra la grandezza e l’archeologia dell’analogico. Penso ai film d’azione come a musica visiva e Fury Road è una via di mezzo tra un folle concerto di mucica rock e un’ opera» ha detto il regista che è anche coautore della sceneggiatura, dal plot esilissimo in cui Furiosa si ribella a Immortan Joe (Hugh Keays – Byrne, già nel primo film), tiranno/leader religioso e CEO di Citadel, che controlla la sua gente facendola morire di sete, protetto da un esercito di kamikaze morenti e vive in un paradiso verde in cima a torri di pietra con donne dal look virginale e figli deformi.

Quando Furiosa rapisce le cinque mogli di Immortan per sottrarle alla sua schiavitù lui si butta sulle sue tracce con tutte le armi, gli uomini e i veicoli che ha. Davanti a loro una sterminata distesa di sabbia. Al capolinea dell’inseguimento/fuga(da cui genialmente si potrà/dovrà solo tornare indietro) è una comunità di donne (dopo i corridoi dell’assistenza sociale francese di La Tete Haute e le quattro sorelle del film in concorso di Hirokazu Kore-Eda, questo è già un leit motiv del festival) un po’ come quelle immaginate da Jane Campion in riva a lago di Top of the Lake. Il futuro del mondo? Una borsa piena di semi e il coraggio di combattere selvaggiamente, fino all’ultimo sangue, per quello in cui credi.