Un tratto elettivo della poesia italiana del Novecento è quanto si integra al corpus dei singoli autori per un lavoro di traduzione che non fu soltanto generalizzato ma seppe dare risultati persino inimmaginabili in altri contesti nazionali. Si trattò, volta a volta, della scelta di uno o più sparring e di un corpo a corpo necessario, più per consonanza ma talora per dissonanza, al riconoscimento della propria parola, come nei casi dello Char di Vittorio Sereni, del Brecht di Fortini, del Frénaud di Caproni e del Baudelaire di Raboni. Solo parzialmente infranta dalla neoavanguardia (perché è pure esistito un Joyce di Giuliani, un Reverdy di Antonio Porta, un d’Aubigné di Giuseppe Guglielmi, per tacere dei classici di Edoardo Sanguineti) la regola è ripristinata dagli autori nati nel secondo dopoguerra e formatisi a cavallo degli anni settanta, la stessa che ci ha dato fra l’altro il Rimbaud di Dario Bellezza, il Valéry di Magrelli, il Corbiére di Paris, il Larkin di Testa, il John Donne di Patrizia Valduga, lo Jaccottet di Pusterla e lo Jabès di Prete, i francesi di D’Elia e i latini di Milo De Angelis.

Si aggiunge a costoro, e per così dire ufficialmente, il lirico più nitido fra i poeti italiani di oggi, Francesco Scarabicchi, che pubblica Non domandarmi nulla (prefazione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, pp. 267, euro 17,00), un libro di versioni da Antonio Machado e Federico Garcia Lorca. Firmatario di partiture complesse e tuttavia garantite da un appiombo verticale, ritmate da una parola scabra, esatta, Scarabicchi ha esordito oltre i trent’anni (La porta murata è del 1982) e ha offerto i primi risultati del suo lavoro di doppiaggio in una zona baricentrica del proprio percorso, nel decennio che intercorre fra Il viale d’inverno (’89) e L’esperienza della neve (Donzelli 2003), cioè l’opera che lo ha rivelato definitivamente al pubblico e alla critica.

In un tale frangente, in anni che il poeta di Ancona ha sentito di ripiegamento generalizzato e di una sua ulteriore introversione (sono quelli delle guerre redivive, della diserzione come della eversione di ogni spazio pubblico), pubblica nel ’93 da Sestante, un piccolo editore marchigiano, Il Seminatore di Stelle con le prime versioni da Machado cui premette una nota che potrebbe essere riferita alla sua stessa produzione: «L’intera opera di Machado è un magistero discreto e autorevole della scrittura del senso e della bellezza che non grida. Quotidiana, estrema, fedele, la sua poesia ci accompagna e ci guida con la puntualità di ogni ora del tempo». Cronologicamente posteriori, ma per ammissione del traduttore idealmente anteriori, le prove su Lorca di cui sono prime testimonianze un Taccuino da Garcia Lorca (l’Obliquo 1993) e Gli istanti feriti, una plaquette che in effetti è il programma di sala per una pubblica lettura all’università di Ancona nel 2000.

Ora, ripensato e assemblato su quei precedenti, Non domandarmi nulla si divide in due parti che si intitolano appunto, e rispettivamente, Il seminatore di stelle e Gli istanti feriti. Va detto che, ad apertura di pagina, si nota come Scarabicchi introduca un differenziale (non tanto una sottrazione quanto un abbassamento della temperatura, una precisa opzione che mira all’understatement) rispetto ai traduttori precedenti, campioni del novecentismo e comunque seguaci del cosiddetto Grande Stile quali Carlo Bo e Oreste Macrì ovvero del novecentismo eredi raffinati come Francesco Tentori Montalto. Scrive opportunamente, in proposito, Fabio Pusterla nella sua densa prefazione: «È che Scarabicchi privilegia, non appena la cosa è possibile, la semplicità del dettato, e sceglie tendenzialmente, nel segno della massima aderenza concessa all’originale spagnolo, un registro medio, rifuggendo dai toni alti e sublimi come dalle accensioni metaforiche, e conservando al massimo grado le intonazioni lessicali e sintattiche del testo di partenza». Non si potrebbe dire meglio. Filologia, lo sguardo sul testo altrui, per Scarabicchi è innanzitutto ascolto, meditazione, lenta metabolizzazione, e solo in seguito, nell’eco dell’orecchio assoluto, essa è proiezione e riscrittura in proprio. Perciò il tradurre, per lui, è un atto di rispetto e di fedeltà, mai un esproprio o un tradimento dell’originale come invece vorrebbe una etimologia tentatrice. Non c’è nessun calco né la corsa alla riproduzione del metro e delle rime eventuali, perché ciò che consapevolmente deve perdere all’esterno, nella metrica, Scarabicchi lo recupera all’interno in prosodia: il verso fila naturale, così elastico nella dizione elementare da assorbire le asperità sonore di una pronuncia castigliana talora molto più portata a gridare, direbbe lui, di quella italiana.

È il caso del suo Lorca, qui specialmente il Lorca del Romancero e però destituito dei cromatismi sgargianti e di ogni enfasi folclorica per essere ascoltato, viceversa, nei momenti più segreti e profondi, nel germinare di una parola a volte devoluta al canto minore e alla filastrocca infantile.

Ecco un esempio di questo Lorca finalmente emancipato dal lorchismo, in Canti nuovi : «Un canto senza carne lirica che colmi/ di risa il silenzio/ (Uno stormo di colombe cieche/ lanciate al mistero).// Un canto diretto al cuore delle cose/ e all’anima dei venti/ e che riposi infine nella gioia/ del cuore eterno»; oppure nei versi incisi su pietra e intitolati De profundis: «I cento innamorati/ riposano per sempre/ sotto la terra asciutta./ Andalusia possiede/ lunghi sentieri rossi./ Cordova, olivi verdi/ dove piantare cento croci/ che li ricordino./ I cento innamorati/ dormono per sempre».

In ogni caso, se Lorca è il poeta iniziatico, quello mandato a mente in gioventù e una volta per sempre, Antonio Machado è il poeta che Scarabicchi riconosce consanguineo nella sua maturità, un poeta di musica sommessa ma non meno dilagante, di attimi fissati nello scatto di una clausola come fossero haiku. Insomma è il poeta di Soledades e Campos de Castilla, della nuda percezione al presente (da Strofe: «Sugli alti luoghi solitari/ vedo alcuni pioppi di freddo/ e un sentiero bianco»), il lirico cui dal presente non è concesso evadere se non nella forma del ricordo che traghetta a sua volta nel qui-e-ora la perfezione di pochi istanti trapassati, come nel celeberrimo fra i carmi amorosi, Canzoni a Guiomar, o in un testo che parrebbe laterale, intonato su un’aria di Verlaine, e invece brilla anche in italiano come fosse un diamante rinvenuto, Pegasi, bei pegasi: «Pegasi, bei pegasi,/ cavallini di legno./…/ Io conobbi, bambino,/ l’allegria dei volteggi/ sopra un destriero rosso/ in una sera di festa./ Nell’aria polverosa/ illuminavano le candele,/ e la notte azzurra ardeva/ seminata di stelle./ Infantili gioie/ che costano un soldo/ di rame, bei pegasi,/ cavallini di legno!» Appena chiuso Non domandarmi nulla, il lettore ha la netta sensazione che Machado e Lorca convivano nella parola del poeta anconetano come parti diametrali, entrambe necessarie, di un medesimo sentire, il segno netto che arriva all’interno di qualcosa e la fissa e insieme l’alone (un suono, un colore) che quello stesso segno libera all’esterno.

Ma non potrebbe essere altrimenti per chi, firmando Con ogni mio saper e diligentia. Stanze per Lorenzo Lotto (Liberilibri 2013), ci ha dato uno dei libri certi della recente poesia italiana.