Visioni

L’oratorio laico di Amos Gitai

L’oratorio laico di Amos GitaiUna scena da «Exils Intérieurs» – foto di Pascal Gely

A teatro In scena alla Pergola «Exils Intérieurs», dialogo immaginario sul tema della posizione dell’artista di fronte all’oppressione

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 16 aprile 2022

Un oratorio laico. Potente e ambizioso, quanto consacrato all’arte, anche la più consapevole, che pure se indica strade e percorsi di «salvezza», finisce col commuovere o far maturare il lettore come lo spettatore, senza però mai riuscire a incidere sulla china della «realtà», che l’umanità sembra spingere verso il suo torbido fondo. Appunto risuonano come Exils interieurs quelli degli intellettuali prestigiosi protagonisti di questa «laica rappresentazione», che Amos Gitai, il regista israeliano soprattutto cinematografico, autore di tanti nobili e contraddittori racconti, ha presentato sul palcoscenico della Pergola (dopo il debutto al parigino Theatre de la ville) in questi giorni. Una performance laica ma soprattutto politica, per i testi degli autori portati essi stessi in scena, legati tra loro dalle note che la soprano francese (ma sempre più spesso ormai attrice) Natalie Dessay canta, interrompendo da un lato la tensione, ma anche animandola col soffio quasi «religioso» della voce sulla musica.

I personaggi convenuti sulla scena (attraverso gli scritti affidati a quegli interpreti) si interrogano, e si rispondono l’un l’altro, sui meccanismi ricorrenti in società diverse, spesso anche opposte

ATTORNO a un lungo tavolo da riunioni convergono in ordine sparso, quasi chiamati all’appello di una scuola dell’umanità, alcuni tra i figli migliori del secolo scorso, chiamati a farci meglio comprendere il nostro, con il suo carico di violenza, aggressività, cieco gusto della sfida, spesso mortale. Si chiamano Thomas Mann, Antonio Gramsci, Herman Hesse, Rosa Luxemburg e Albert Camus. A dar loro corpo e voce, a quel tavolo di negoziato impossibile con la realtà, attori ed artisti importanti, di grande fama individuale, da Hans Peter Kloos al nostro Pippo Delbono (che dà voce e vibrazioni al nostro Gramsci).
È tra di loro, a dare respiro e profondità alle loro parole, che si aggira Natalie Dessay con il suo canto, accompagnata dal vivo in scena da pianoforte, violino e fisarmonica (sotto le luci firmate da un altro maestro della scena francese, Jean Kalman). E sul grande schermo al di là del tavolo scorrono le immagini dei film che Gitai hanno reso noto nel mondo, assieme alle sue posizioni così spesso fuori dal coro.
I personaggi convenuti sulla scena (attraverso gli scritti affidati a quegli interpreti) si interrogano, e si rispondono l’un l’altro, sui meccanismi ricorrenti in società diverse, spesso anche opposte, ma che in ogni caso hanno il fondo comune di spingere l’intellettuale all’opposizione, anche a prezzo di pagarne prezzi molto alti. Dall’emarginazione alla fuga all’esilio, fino ai casi più dolorosi e tragici, come quello di Gramsci, condannato dal fascismo al confino di Turi, da cui fu liberato solo all’ultimo, tre giorni prima della morte.

EPPURE, in questa sorta di «mistero» religioso, non mancano dialettica e diversità che possono nascere dall’opposizione a un regime o dalle proprie scelte artistiche, di modalità e di linguaggio. E se le lettere di Gramsci certo ci sono più familiari nella loro drammaticità (e Delbono ce ne fa sentire l’umanità profonda), fa molta impressione lo scambio tra Thomas Mann ed Herman Hesse, alle sommità della letteratura tedesca, eppure costretti a venir degradati, a dispetto dei Nobel, dalla propaganda del fuhrer. E non meno bruciante è la vicenda di Rosa Luxemburg finita nel sangue. Le parole finali di Albert Camus costituiscono una summa morale su un così infausto secolo, che da quegli «esili interiori», rimane segnato, ma minimamente in qualche modo rinfrancato. Piovendo sul nostro, che non finisce di riservarci amare e sanguinose «sorprese».

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