Tra 26 giorni la Gran Bretagna lascia definitivamente l’Unione europea. Dopo più di tre anni di negoziato, non c’è ancora un accordo sulla “relazione futura” tra Londra e i 27. Lo spettro di un no deal si concretizza. Negli ultimi 30 giorni le trattative si sono intensificate, senza interruzioni. «Siamo alla fine della maratona, probabilmente al chilometro 40» (su 42,2), descrive Stefaan de Runck, consigliere del negoziatore europeo Michel Barnier (che a gennaio, tanto per aumentare la confusione, andrà in pensione), «ma non posso garantire che raggiungeremo la linea d’arrivo con un accordo».

Eppure, il 95% del testo legale è pronto da tempo. Ma restano degli intoppi di peso, che possono fracassare tutto in un incidente nucleare, un no deal che andrà ad aggiungere le sue difficoltà a quelle degli effetti del Covid. Siamo ormai fuori tempo massimo: anche se ci fosse un accordo la prossima settimana, pronto per il Consiglio europeo del 10-11 dicembre, difficilmente potrebbe essere vinta la corsa per l’approvazione del testo, sia da parte di Westminster (anche se a Bruxelles pensano che si precipiteranno) che da parte del Parlamento europeo.

La Commissione, del resto, è già stata avvertita di preparare un periodo di transizione, quando la Gran Bretagna non applicherà più le norme Ue, per evitare strozzamenti nei trasporti, nella circolazione, con effetti nefasti sull’economia. Se non c’è accordo, verranno applicate le norme della Wto, con tariffe doganali e quote.

LONDRA E BRUXELLES si stanno precipitando in una corsa al disastro, entrambe sperano che la controparte ceda, anche se nessuno abbandona il tavolo della trattativa. Londra tira la corda, rischiando di spezzarla. La prossima settimana torna alla Camera dei Comuni il controverso testo di legge che mette in causa l’Accordo di Ritiro.

La Camera dei Lord aveva ritirato le clausole contestate dalla Ue, ma adesso il premier Boris Johnson assicura: «Le rimetteremo». E i 27 hanno fatto chiaramente sapere che se vengono sabotati i termini del Withdrawal Agreement non ci sarà l’accordo sulle “relazioni future”. Questa legge britannica mette soprattutto in crisi le disposizioni che evitano il ritorno della frontiera tra Irlanda del Nord e Eire, garanzia della pace dopo la guerra civile irlandese a cui hanno messo fine gli accordi del Good Friday del 1998. Il ministro degli Esteri irlandese, Simon Coveney, chiede a tutti in queste ore di «mantenere sangue freddo» e spera in un «accordo possibile» nei prossimi giorni.

La Gran Bretagna non ha nessuna intenzione di chiedere un nuovo rinvio: il 31 dicembre a mezzanotte esce dalla Ue. Davanti a questa intransigenza, il fronte Ue mostra le prime crepe (che Boris Johnson ha intenzione di ben sfruttare).

SU TRE PUNTI-CHIAVE restano divergenze tra Gran Bretagna e Ue: le regole della concorrenza (la Ue non vuole dumping, né sulle norme né sugli aiuti statali); la pesca; la soluzione di eventuali conflitti futuri, che dovrebbe essere affidata alla Corte di Giustizia. La Commissione, con la Germania che ha fino al 31 dicembre la presidenza a rotazione del Consiglio Ue, cerca un accordo ad ogni costo. Mentre alcuni paesi frenano: Francia, Danimarca, Olanda, Belgio e Spagna preferiscono nell’immediato un no deal a un cattivo accordo. Tra l’altro, anche nelle istanze europee si fa notare che cedere troppo a Londra potrebbe pregiudicare futuri accordi commerciali con il resto del mondo. La Francia è in primo piano sulla pesca: Londra ha già ceduto qualcosa, si riprende il controllo sul 60% delle proprie acque territoriali (aveva chiesto l’80%), lasciando un po’ di spazio per le quote dei pescatori Ue (le acque britanniche sono più pescose, ma la Gran Bretagna esporta nella Ue gran parte del pescato, dove per di più ci sono gli impianti di condizionamento). «La pesca non sarà la variabile di aggiustamento» ha ancora detto il primo ministro francese Jean Castex questa settimana ai pescatori brettoni.

LA UE HA STANZIATO 5 miliardi di budget per venire incontro ai settori più colpiti dalle conseguenze del Brexit, ma i pescatori francesi non si accontentano. Sulle norme, i britannici dicono: non abbiate paura, noi abbiamo sempre scelto il livello più alto. Ma questa settimana si è instillato il dubbio sull’import di carni statunitensi da allevamenti con antibiotici, banditi dalla Ue. Sulla finanza, Londra ha fatto una concessione, dando delle “equivalenze” a istituzioni Ue per operare sul loro mercato, senza avere per il momento contropartite sul mercato finanziario europeo.