«Osservazioni sparse su quel carattere del popolo italiano che si può chiamare apoliticismo. Questo carattere è delle masse popolari. Negli strati dominanti vi corrisponde un modo di pensare che si può dire “corporativo”. Una varietà di questo apoliticismo popolare è il “pressappoco” della fisionomia dei partiti, il pressappoco dei programmi e delle ideologie».

Così definiva Gramsci il rapporto tra l’alto e il basso della politica in Italia, tra popolo e partiti. Risiede qui il segreto di Conte, del suo consenso, della crisi di governo e del modo in cui è stata momentaneamente arginata? Da un lato, il consenso «apoliticista» del premier. Conte piace trasversalmente alle classi sociali e agli orientamenti politici. Ha un consenso «pigliatutti» che nasce dalla sua indefinizione politica, dalla mancanza di prese di posizione, progetti e parole d’ordine polarizzanti.

Piace quasi per contrasto, perché non è come gli altri, non è politico, è più «civile» (nei comportamenti e nel linguaggio), per certi versi più elevato (come lo definisce Grillo) della maggior parte dei politici, come mostrato dal dibattito parlamentare. È una superficie su cui si possono di volta in volta proiettare colori diversi, una superficie quasi tecnica (il rassicuratore di fronte ai rischi della pandemia e della crisi economica, decisionista ma sobrio) ed estetica.

Il suo consenso ha paradossalmente anche alcuni aspetti anti-élite, vista l’opposizione che il governo riceve dai principali organi di stampa e dalle forze economiche che li possiedono. Una tensione con le élite non deriva da una radicalità delle politiche realizzate ma dal fatto che queste élite considerano eccessive e pericolose anche politiche che non abbiano nei loro interessi il proprio fine esclusivo e assoluto, anche quando questi interessi vengono tenuti in ampia considerazione. Élite «corporative», come le definiva Gramsci.

Conte ha confermato le sue caratteristiche negli interventi alla camera e al senato di questi giorni. Ha elencato i meriti del governo molto al di là di quanto dicano i numeri della crisi economica e sanitaria. Ha citato spesso parole quasi neutre come «economia verde», «transizione digitale», «innovazione», «modernizzazione», e quasi mai parole identificanti come «diseguaglianze».

Questa debolezza di tonalità politica, di proposte e parole riconducibili a precise parti politiche e sociali e magari capaci di attivare quella politica-passione che a sinistra manca da decenni (da quando nella sinistra italiana non ci si appassiona collettivamente e attivamente a qualche prospettiva politica?), non è del solo Conte. È stata finora un tratto di tutto il governo e delle forze politiche che lo compongono. Per questa ragione la crisi ha assunto il volto surrealista dell’assenza di contenuti e del puro conteggio aritmetico.

Il governo Pd-M5S-LeU poteva essere un’occasione di cambiamento nella sfera delle politiche economiche e sociali e in quella delle forme della politica (qualcuno ricorda il mito della «partecipazione»?). Questa occasione finora è stata persa da un esecutivo che – pur essendo il migliore possibile nell’attuale scenario parlamentare – ha somigliato più a un apparato amministrativo che a una compagine politica. È improbabile che possa essere colta ora, nel nuovo incertissimo scenario.

A quanto dicono Conte e il Pd, la nuova linea Maginot della politica italiana è la frattura tra europeisti e sovranisti, analoga a quella tra «populisti» e «democratici». Ma l’europeismo come valore unificante non è una novità. È il principale, forse unico valore del centro-sinistra italiano fin dagli anni Novanta. Non ha portato molta fortuna.

Così come non ha portato fortuna l’opposizione tra democratici illuminati e populisti barbarici. Il risultato di questi dispositivi retorici è quello di avere in Italia una destra sempre più forte e radicale e un centro-sinistra sempre meno definibile e capace di espandere il proprio consenso. Non si tratta ovviamente di strizzare l’occhio ai «populismi sovranisti», ma di contendere l’egemonia agli avversari individuando collanti valoriali politicamente efficaci.

Il problema è sempre lo stesso. Conte ha solo un’opposizione di destra. Grandissima parte della sinistra, anche tra gli elettori, ha come orizzonte attuale poco più della difesa del premier. L’esistenza di una sinistra autonoma sarebbe indispensabile per restituire al dibattito e allo scontro politico un orizzonte dotato di senso. Ma questa sinistra può essere ormai costruita solo ex-novo.