Il tema dell’uso e dell’abuso degli stupefacenti nella Germania nazista costituisce l’oggetto della ricerca presentata da Norman Ohler, giornalista e scrittore tedesco, in Tossici. L’arma segreta del Terzo Reich. La droga nella Germania nazista (Rizzoli, pp.382, euro 22). L’indagine si fonda principalmente su una selezione di carte private e di documentazione clinica inerente l’attività di medici, chimici e farmacisti operanti sotto il regime, fonti consultate dall’autore presso diversi archivi federali tedeschi e americani.

LA PRIMA SEZIONE del volume presenta una sintesi, non sempre riuscita nei suoi intenti di analisi socio-culturale, sul crescente protagonismo che la droga ha assunto dalla fine del Settecento all’interno delle società europee. Dopodiché Ohler sposta il suo sguardo sull’esame dell’ampia circolazione che i narcotici conobbero sotto il Reich, soffermandosi in particolare su quei medicinali, definiti al tempo «farmaci rivitalizzanti», che contribuirono al processo di progressiva alterazione di una società che nell’abuso di oppiacei e droghe sintetiche, prodotte a ciclo continuo dall’industria chimica nazionale, trovava una delle sue via di fuga da una realtà opprimente e irreggimentata. Ne è un esempio la metilanfetamina, prodotta negli stabilimenti Temmler di Berlino, brevettata nel 1937 e commercializzata sotto il nome di Pervitin; essa si diffuse così rapidamente sia tra gli uomini comuni sia tra le élite del partito e dell’esercito al punto da penetrare nella cultura popolare, come testimoniato da una canzone diffusa nelle taverne berlinesi, citata nel libro, il cui ritornello recita: «noi berlinesi ripieghiamo sulla cocaina e sulla morfina, noi sniffiamo e ci buchiamo».

Si apprende inoltre che, durante la seconda guerra mondiale, ai soldati veniva somministrato, prima e dopo i combattimenti, un potente antidolorifico ad azione rapida, l’Eukodal, a base di oppioidi, che inibiva per un considerevole arco temporale stati di stanchezza e spossatezza, senza tuttavia adulterare le capacità di prestazione del combattente. Il farmaco circolò con successo anche nei quadri della Wermacht e nell’establishment vicino a Hitler, il quale a sua volta ne divenne gradualmente dipendente, con il progredire della guerra e delle sue disfatte.

Tralasciando l’impiego di un linguaggio scientificamente poco pertinente – «sballo», «craving», «high Hitler» etc – e di citazioni decontestualizzate tratte dalla cultura hippy degli anni ’70, il dato più interessante da segnalare – certo non nuovo agli storici della scienza e della scienza sotto il nazismo in particolare – riguarda il nesso che ha legato il sapere medico-chimico ai regimi totalitari, più precisamente il contributo dato dal primo alla realizzazione delle politiche eugenetiche dei secondi. La seconda parte del libro si focalizza sul rapporto intimo stabilitosi fra il medico personale di Hitler, Theodor Morell, e il suo paziente, indicato nelle cartelle cliniche con il nome di «Paziente A».

Un legame divenuto sempre più simbiotico e che porta Ohler a interpretare i documenti redatti da Morell in termini di rappresentazioni grottesche di Hitler, descritto come un tossicomane irrecuperabile, vittima di crisi di astinenza sempre più frequenti, di manie placate solo a mezzo di iniezioni somministrate dal devoto medico.

L’ACCURATO DIARIO giornaliero che egli tenne sopra lo stato del paziente A risulta essere la parte più rilevante perché ci illumina sulla tipica mentalità dei medici nazisti e sul loro modus operandi; uno scenario clinico in cui è l’esperimento a venire prima della salute del paziente, in cui è la verifica degli effetti provocati dai farmaci a rendersi protagonista assoluta, in cui è la costanza con cui è mantenuta la cura nonostante l’emersione di sintomi sempre più gravi di dipendenza e di allucinazioni a definire il profilo del buon medico, il cui comportamento finisce per assumere tratti sadici e ossessivi.

SE TRALASCIAMO le morbosità mediche a cui l’autore ricorre con una certa frequenza, in specie riguardo al caso del paziente A, e tenendo a mente ciò che ribadisce a più riprese, ma che non articola in maniera convincente, sopra la necessità di non attribuire le atrocità perpetrate dal nazismo all’assunzione di sostanze narcotiche, questo volume, come nota nella post-fazione uno dei più importanti storici del nazismo, Hans Mommsen, ha il merito di porre in evidenza la droga quale fenomeno socio-culturale in quel contesto totalitario la cui auto-rappresentazione primaria era data dal mito del corpo sano, specchio di una nazione integra e incorrotta.