Il presidente Andrés Manuel López Obrador ha un piano per affrontare l’intransigenza di Donald Trump, deciso a imporre la costruzione di un muro alla frontiera Usa-Messico.

 

Andrés Manuel López Obrador

Da una parte ha rifiutato lo schema proposto dalla Casa bianca, ovvero accettare per il Messico la condizione di «terzo paese sicuro», che lo costringerebbe a ospitare decine di migliaia di migranti centroamericani mentre le corti statunitensi decidono la loro sorte: significherebbe istituire campi di rifugiati in Messico.

DALL’ALTRA HA PROPOSTO un piano per assicurare uno sviluppo economico nel cosidetto «triangolo del Nord del Centroamerica» (Honduras, El Salvador e Guatemala) per affrontare le cause economiche e la violenza strutturale del capitalismo che spingono decine di migliaia di persone di quest’area a emigrare verso Nord. È una sorta di piano Marshall che coinvolge anche gli stati del sud del Messico si basa su quattro assi: emigrazione, commercio, sviluppo economico e sicurezza, per un costo di 30 miliardi di dollari, in modo da creare quella che il ministro degli Esteri messicano Marcelo Ebrard ha definito «una zona di prosperità».

SECONDO ALTI FUNZIONARI messicani – che si sono espressi in varie interviste – se non fosse possibile persuadere Trump a partecipare a un progetto che di fatto è il contrario di quanto minaccia di fare, López Obrador sarebbe pronto a far capire che esiste un altro poderoso attore disposto a riempire il vuoto: la Cina.

Il gigante asiatico sta guadagnando terreno e influenza nella regione centramericana, che intende includere nella «nuova via della seta». Attualmente Pechino è il secondo o terzo socio commerciale dei paesi dell’area: imprese cinesi realizzano opere di infrastruttura in Honduras, Nicaragua, Costa Rica e Panama e sono già stati formulati piani di investimento in Salvador e Guatemala per un totale che supera i 2 miliardi di dollari, senza contare il progetto del canale intraoceanico del Nicaragua – dal futuro incerto – che prevede una spesa di 50 miliardi di dollari.

La Cina già ha firmato un Trattato di libero commercio con il Costa Rica ed è in avanzate trattative con Panama. Entrambi gli stati centroamericani hanno scelto strategicamente Pechino, rompendo le relazioni con Taiwan. Nel primo, l’impresa cinese China Harbour Engineering Company (Chec), è incaricata di ampliare la principal estrada che unisce la capitale, San José, con il Golfo del Messico, mentre sono avanzati i progetti per creare una Zona Económica Especial (Zee) dove verranno fabbricati prodotti cinesi.

MA È A PANAMA che la penetrazione cinese è più massiccia. Nell’aprile dell’anno scorso è stata inaugurata una linea aerea diretta tra la capitale e Pechino. La Chec ha già iniziato la costruzione di un porto per imbarcazioni di crociera e un altro per container nella Zona franca di Colón con un investimento programmato di oltre un miliardo di dollari, mentre il gigante cinese in telecomunicazioni Huawei ha installato, sempre a Colón, il sesto centro di distribuzione mondiale dei suoi prodotti.

Imprese cinesi competono per ottenere i contratti di un un nuovo ponte sul canale di Panama e per la costruzione di una linea ferroviaria tra la capitale e la frontiera del Costa Rica. I legami tra la Cina e le «famiglie» che contano a Panama, compresa quella del presidente Juan Carlos Varela, hanno permesso alle compagnie cinesi una posizione di vantaggio rispetto ai concorrenti. Non solo, il governo panamense progetta l’emissione di buoni sul mercato cinese – già definiti «Buoni panda» – per un valore di 500 milioni di dollari.

LA CINA secondo vari analisti è interessata a una forte presenza in un’area geografica che assicura un facile accesso ai due oceani, Pacifico e Atlantico. «Questo concede un enorme potenziale di sviluppo economico», afferma Enrique Dussel Peters, coordinatore del Centro de Estudios China México dell’Universidad Nacional Autónoma de México. Ma soprattutto Pechino «dimostra al mondo, principalmente agli Usa, di essere un competitore globale. È come se dicesse a Washington: siamo qui, nel vostro giardino di casa, dunque dobbiamo trattare da pari».

È una situazione che fa vedere rosso la Casa bianca. A metà dello scorso ottobre il segretario di stato Mike Pompeo ha fatto una visita lampo a Panama per avvertire il presidente Varela, in puro stile neocoloniale, di «tenere gli occhi bene aperti nelle relazioni con la Cina» per via delle «attività economiche predatrici» attuate da Pechino.

«UN MESSAGGIO FORTE E CHIARO», secondo l’ex ministro degli Esteri panamense José Raúl Mulino, affinché Panama faccia marcia indietro. Ma è la stessa «politica isolazionista e minacciosa nei confronti dei paesi centramericani» che induce i governi della regione a cercare un contrappeso agli Usa, afferma Rafael Fernández de Castro, analista dell’Università della California.