Per quanto sia stato un titolo popolare, Werther di Jules Massenet non è più oggi un’opera dal richiamo forte, a meno che non ci sia un tenore di grande nome. Francesco Meli ormai ha raggiunto questo status, soprattutto a Roma dove è molto amato grazie alle tante presenze sotto la bacchetta di Riccardo Muti. Il personaggio di Werther come concepito dalla penna di Massenet (piuttosto lontano dall’originale goethiano) si adatta bene alle sfumature e alla bellezza di un timbro che mantiene freschezza giovanile, nonostante le sollecitazioni di un repertorio che si fa via via più oneroso. Il successo è tutto per Meli ma accanto a lui, nello spettacolo molto riuscito di Willi Decker, incentrato sulla resa psicologica di personaggi e contesto sociale, risaltano l’ottima Charlotte di Veronica Simeoni, voce sicura e attrice sensibile, e l’orchestra, altro attore fondamentale dell’opera (stasera va in scena l’ultima recita). Sul podio, con gesto sicuro e equilibrato, c’è Jesús López Cobos, maestro spagnolo dalla lunga carriera, ormai quarantennale, con una grande esperienza in tanti repertori diversi: «La musica di Massenet – spiega – non è verismo, è una musica molto elegante che crea un ottimo bilanciamento fra le ragioni dell’orchestra e la scrittura per le voci. Ci sono molti legami con Wagner per l’uso del leitmotiv, ma in una maniera assolutamente personale».

Lei sembra trovarsi a suo perfetto agio in tanti repertori diversi, dal sinfonico all’opera, dal Belcanto a Wagner, all’opera francese. Una scelta?
Vengo da un paese che non ha un vasto repertorio, né sinfonico e tantomeno operistico. Quando ho studiato , sia a Vienna che in Italia, la mia formazione mi ha aperto a tantissime influenze musicali. Sono molto curioso, e la scelta di non specializzarmi, di non ricevere un’etichetta è sempre stata deliberata.

Però ha maturato un’esperienza specifica nel rapporto con le voci, con le tradizioni dell’opera, è innegabile.

Per lavorare con le voci bisogna essere flessibili: però io ho il vantaggio di aver cominciato come cantante, sono stato nel coro per un buon periodo, quindi il mondo dell’opera l’ho sempre vissuto in modo naturale, e questo è il riscontro che ho sempre avuto da parte dei cantanti. Del resto la mia carriera operistica, prima di continuare in Germania, è iniziata proprio in Italia, al Teatro la Fenice.

Che ricordo ha degli anni di studio in Italia?

Sono stati anni meravigliosi, io venivo in estate a Venezia e a Siena per studiare con Franco Ferrara, un insegnante e uomo di qualità rare: fu lui a suggerirmi di perfezionarmi a Vienna, perché da buon meridionale mi serviva una disciplina più stringente; un contributo lo diede anche Claudio Abbado, che conobbi in quegli anni e mi consigliò di studiare con Hans Swarowsky, che era stato suo maestro.

Come ha trovato l’orchestra, che in questi mesi ha vissuto periodi turbolenti? 

Conoscevo già l’orchestra, ero venuto a Roma per invito di Riccardo Muti – avevo conosciuto anche lui nel 1967 da Ferrara! – che mi aveva garantito sul buon livello dell’orchestra. E infatti mi sono trovato bene. Stavolta forse ho notato qualche esitazione nel trovare concentrazione, ma del resto ho capito che hanno avuto un periodo particolarmente difficile: alla fine si sono calati molto bene nel linguaggio di una partitura che tutto sommato non è più così consueta e chiede moltissimo sul piano della pura resa orchestrale.