Gira volta vola. Comincia con un ballo l’Operetta burlesca che Emma Dante ha portato sul palcoscenico del teatro Eliseo per Romaeuropa (le repliche dello spettacolo che dovevano proseguire fino alla fine del mese sono purtroppo annullate per lo sfratto del teatro). Volteggiare di ventagli e lustrini. Abiti da sera e luci del varietà. Polvere di stelle. Una lunga teoria di scarpe femminili allineate a filo della ribalta – e sappiamo quanto conti quel limite nel lavoro dell’artista palermitana, quella soglia da cui è impossibile nèsciri come già sperimentavano i protagonisti di mPalermu. Non può uscirne neanche il protagonista di quest’altra storia familiare, non può uscire dalla sua storia. Che si snoda, con la cadenza di una allegra via crucis, sotto il lampeggiare di luci rosse come da balera o qualche discobar più moderno e altrettanto arcaico. Gira volta vola.

 
La storia la racconta in prima persona, e bisognerebbe scontarne la soggettività se non fosse così evidente l’apologo. Ragazzo delicato, così lo vizia la madre chiusa nel suo universo di frittate di maccheroni. Costretto a vivere in un corpo sbagliato – mi sentivo femmina, dice. E in un luogo sbagliato, che è quasi lo specchio dell’altro. Un paese dell’entroterra napoletano e una pompa di benzina, a cui la famiglia d’origine siciliana si è dannata. Non proprio giusto per lui che sogna quei vestiti eccessivi e quelle scarpe rosse dal tacco altissimo che può indossare solo nella sua camera, e anche qui sono dolori. Ha perso la lingua, che non a caso si dice materna. Forse anche lo sguardo dei siciliani. E il primo scontro (scenico) si gioca proprio sulla lingua, fra la cadenza napoletana di Carmine Maringola e il siciliano residuale di Francesco Guida che è padre e madre insieme, senza bisogno di cambiare d’abito, infatti marciano di pari passo la violenza sincera dell’uno e l’opportunismo pavido dell’altra.

 
Ce n’è abbastanza per relegare Operetta burlesca dentro i confini, più o meno politicamente corretti, del gender, della denuncia di una condizione esistenziale, della rivendicazione di un diritto alla felicità che prescinde dalle inclinazioni sessuali. Soccorre anche il ricordo di lavori precedenti come Mishelle di Sant’Oliva o Le pulle (altra «operetta amorale» dopo tutto) che pure dicevano di corpi sfacciatamente addobbati e di una precaria identità sessuale. Non è proprio così. Lo si dovrebbe già intuire da quel titolo tautologico, tutto coniugato in minore. È che nel teatro di Emma Dante l’omosessualità o il travestito (come da un altro lato lo stupro, l’incesto, la prostituzione) non sono il tema ma la manifestazione o se si vuole il paradigma di una realtà da affrontare a viso aperto. I panni sporchi non si lavano più in famiglia.

 

 
Qui si tratta di innamoramento, di passione semplice, di un bisogno disperato d’amore che appartiene a tutti. Perché lui, Pietro si chiama, a un’età ormai non più giovanissma ha creduto di averlo trovato l’amore, in un negoziante di calzature, che altro se no. Con tanto di fasci di rose rosse, finché resta una cosa segreta, clandestina. Piuttosto l’appello a una condizione estrema serve a tirare il pathos fino alla soglia del patetico, per consumarlo e in qualche modo esorcizzarlo, prima di cedere alla commozione. Si pensa alla struggente vestizione del protagonista con uno di quegli abiti sguaiati tirati giù dai manichini appesi sul fondo, che si riveleranno oscene bambole gonfiabili; mentre a un passo da lui si assiste a un lento spogliarello, lavoro notturno fatto di sesso, denaro e locali malfamati che i gesti codificati vorrebbero tradurre in un atto liturgico. Ed è naturalmente il rivelarsi di un corpo femminile che lui può solo fingere.

 
A negare il sopravvento del pathos è la struttura stessa dell’operetta. Con l’irrompere della musica a fare da filo conduttore dell’azione, non proprio epica, e assume la forma della canzonetta popolare, e peso drammaturgico quando torna da lontano nel tempo L’immensità di Don Backy (ma nella versione più dolciastra di Dorelli, se non sbaglio). La musica che spinge al ballo. Con quei corpi che al ritmo della musica danzano, e si incontrano e scontrano, e restano nudi in un abbraccio (in scena ci sono anche Viola Carinci e Roberto Galbo, sfuggente oggetto del desiderio privo di voce propria in quanto proiezione della voce narrante). Con quel tocco burlesco che ferisce là dove non te l’aspetti. Tutto nel mondo è burla, diceva il pessimismo del Falstaff verdiano. E chissà cosa avrebbe detto il burlador di Siviglia, Don Giovanni, che delle storie di disamore qualcosa ne sapeva.

 
Gira volta vola. È ancora la voce di Tosca a porre il sigillo allo spettacolo. Gira su di sé la ballerina in tutù che ha conquistato il primo piano. Come su un carillon. Come, nel suo sogno, l’ultima delle Sorelle Macaluso. Immagine cara a Emma Dante, ci lascia dello spettacolo una traccia di malinconia, da consumare con cura e dolcezza.